giovedì 28 ottobre 2010

Gli Altri

(Dopo un illuminante battibecco scolastico)

Buffa entità, questo fantomatico Gli Altri: è tra i primi incontri che facciamo da piccoli, ma tra i più importanti, perché col passare del tempo ci rendiamo conto di quanto questo Essere divino sia in grado di condizionare la nostra vita.

"Mamma, a Paolo e a Luca hanno regalato una bici nuova" a cui dopo un breve attimo di esitazione, come per raccogliere il coraggio necessario, seguiva un "La compri pure a me per favore?". Salvo rare eccezioni la risposta suonava più o meno così: "Ma a te che ti interessa di quel che fanno Gli Altri? Pensa a te, non guardare a quello che succede a Gli Altri!" E io lì che pensavo a chi avesse chiamato in causa questo fantomatico Gli Altri...io stavo parlando di Paolo e Luca, nessun altro! da dove è spuntato questo terzo incomodo?

Eppure non ci si è accorti che quello è stato il primo passo verso l'interiorizzazione de Gli Altri: eccolo, è entrato dentro di me, il mio Io sta iniziando a contrapporre a sè stesso, come in una lotta titanica, Gli Altri, e sarà sfida eterna.

Passa il tempo, e il nostro rapporto con questa strana sostanza non fa che evolversi: ci si trova adolescenti che si capisce la posizione della netta superiorità dell'Io: "non sarò mai come Gli Altri, sarò diverso". Ci siamo sentiti tutti un po' ribelli, abbiamo sempre voluto distinguerci, innalzare ancora più in alto quel muro che ci divide da Gli Altri, quasi sia un mostro da evitare.

Prima o poi però ci si rende conto che non riusciamo a fare a meno de Gli Altri: ci affascina, abbiamo bisogno di confrontarci con Lui: guardiamo un attimo oltre il muro e ci accorgiamo in un lampo che al di là è tutto più bello. Lo spiamo...ma lui non se ne accorge. Oppure fa semplicemente finta di non accorgersene, chi lo sa. Sta di fatto che vogliamo essere un po' meno Io e un po' più Gli altri. Iniziano così a spuntare i jeans a vita bassa, si inizia a sentire determinata musica, affinché riusciamo a sentirci accettati da Gli Altri.

Ecco, se ne è accorto, e ci ha sorriso: si è reso conto che siamo diventati un po' più simili: però il muro non lo scavalchiamo. C'è ancora l'Io, a cui non vogliamo ammettere che non vogliamo più essere Io ma essere come Gli altri: è geloso, chissà che scenata farebbe se lo venisse a sapere...Per sicurezza meglio rimanere da questa parte...Però nel frattempo Gli Altri è già dentro di noi.

L'Io si sente punto nel vivo, intuisce il contrasto che sta nascendo: odia Gli Altri, rivuole l'indipendenza. Eppure, cieco e sordo, finge di non accorgersi che Gli Altri ci sta lanciando dall'altra parte del muro tutto ciò di cui abbiamo bisogno: ideali, idee, cibo, aiuto, affetto...Non vuole ammetterlo, ma Gli altri ci sta davvero dando una mano.

Iniziano a spuntare problemi di ordine comune, di quelli che si incontrano nella vita di tutti i giorni: una volta ad esempio è successo che anche Gli Altri si trovasse a scuola. Occorreva decidere chi andasse volontario la lezione successiva di matematica. L'Io prese parola: "ehi, ma sono pieno di impegni! ci andasse Gli Altri, che non ha mai nulla da fare". In fondo era vero: il giorno successivo aveva l'interrogazione di storia, e lui sapeva benissimo che Gli Altri aveva tempo libero a disposizione, lo aveva spiato dall'altro lato del muro. Certo, era immenso lo spazio al di là di esso, ma era sicuro che Gli Altri non stesse facendo nulla di importante e che avrebbe potuto tranquillamente pensarci lui a studiare matematica.

Dopo non poco tempo l'Io capì che per qualsiasi problema non c'era bisogno di affannarsi, poteva pensarci Gli Altri al posto suo. Fu così che la volta successiva, pur avendo un intero pomeriggio da poter dedicare allo studio accusò Gli Altri di essere un ingrato, un fannullone, che avrebbe potuto studiare anche quella volta lui ed andare volontario: in fondo i suoi impegni non erano poi così importanti; l'Io disse che sarebbe potuto andare volontario la volta successiva ma, come in fondo era lecito aspettarsi, non lo fece e lasciò a Gli Altri l'amaro compito anche in quell'occasione.

Si cresce, e bisogna cercare un lavoro, metter su famiglia...Certo che ce ne sono di difficoltà: però Gli Altri non capisce, e si mette in mezzo ad ogni piccolo problema. E il sindacato, e il governo, e gli altri lavoratori...Gli Altri è ovunque! Possibile che non lasci libero l'Io e lo riempa di così tanti problemi? Lo stipendio è basso, ma mai che Gli Altri organizzi uno sciopero. C'è da rimettere a posto la luce del piano terra al condominio: ma non sia mai che Gli Altri si decida a sostituirla...Vorremmo anche provare ad avere nuovi amici, ma pare che Gli Altri non capisca fino in fondo che persone stupende che siamo: pazienza, peggio per lui.

Dopo un po' entra la consapevolezza che Gli Altri non si diverte solo a rendere la vita difficile all'Io, ma alla nazione intera: per colpa de Gli Altri aumenta l'effetto serra, Gli Altri rubano il lavoro a noi cittadini comunitari, Gli Altri non pagano le tasse e aumenta la pressione fiscale. Per fortuna ieri in televisione hanno detto che stiamo uscendo dalla crisi prima e meglio de Gli Altri.

Nei momenti di difficoltà ciononostante si attendeva fiduciosi l'intervento de Gli Altri: ci penserà lui a trovarmi lavoro, se c'è una rapina chiamerà lui la polizia, se c'è un pedone sulle strisce che attende di attraversare la strada accelero: tanto Gli Altri lo farà passare.

Si viene così a creare questa situazione paradossale per cui c'è un eterno rapporto d'odio e d'amore nei confronti de Gli Altri, rapporto che si esplica nella continua indecisione tra lo scavalcare il muro e rimanere da questo lato: seguire l'Io o Gli Altri?

Dopo un lunghissimo periodo di indecisione venne in punto di morte la curiosità di provare a oltrepassare il muro, diventato giorno dopo giorno sempre più alto e più spesso. L'Io stesso decise di salire. Era in cima, guardò un ultima in fondo, poi si girò verso il lato de Gli Altri, così simile eppure così diverso da lui. Prese la rincorsa e saltò dall'altro lato. O perlomeno così pensava: lo specchio che era sempre stato sulla cima del muro andò in frantumi e l'Io precipitò oltre di esso, dove vi era il vuoto. Gli Altri non era mai esistito.

sabato 23 ottobre 2010

spirit of the radio


(premessa...il titolo è una canzone dei Rush, rendeva l'idea)

è sabato mattina, sono in bagno a lavarmi i denti e penso alla traccia del compito di storia. Sarà la differente visione dell'imperialismo tra Lenin, Hobson e Fieldhouse, sono pronto a scommetterci (per l'onor di cronaca: ho sbagliato, ma non ho mai azzeccato una previsione di una traccia del compito di storia negli ultimi tre anni che fosse una, eppure non mi arrendo e continuo a tirare a indovinare).


La radio è accesa. A volumi bassi, s'intende, sennò poi un parente random si sveglia e si incazza...frequenza 96,7, virgin radio. In sottofondo alle operazioni mattutine c'è stand by me: cosa si può pretendere di meglio?

Sono alle prese con il dentifricio, so che in fondo ce n'è ancora un po'...ho la confezione nuova affianco ma voglio che sia finito, voglio vincere quella lotta che si trasmette di genitore (quasi sempre la madre) ai figli: guai ad aprire un dentifricio nuovo se ancora c'è un po' di quello vecchio. E io lo osservo: si presenta come un veterano reduce da chissà quale gloriosa guerra in attesa del desiderato pensionamento, il cestino. Ma dovrà sudarselo il riposo, dovrà obbedire al mio volere: del resto, hanno aumentato l'età pensionabile, penso che valga anche per i dentifrici.

E nel bel mezzo della lotta, quando ormai so che sto per diventare vincitore, mi fermo: c'è rock in translation. In fondo, della musica che trasmette la radio mi importa poco, amo sentire voci che mi tengano compagnia. Giulia Salvi è la voce narrante: sta traducendo una canzone degli Stone Temple Pilots, interstate love song è il suo titolo; Una canzone che ho sentito miriadi di volte, di cui ignoravo sia il titolo sia il gruppo. E ora invece mi viene raccontata, perchè in fondo la musica può venire anche raccontata, non solo ascoltata...e tutta la mia attenzione è rivolta alla storia in cui la ragazza mi sta trasportando. Mi svela i segreti dietro questo testo, dei motivi che hanno portato a questa canzone: l'eroina, l'amore di uno dei membri del gruppo per una donna...

Ora che ci faccio caso però, non sto concentrato tanto sulle parole della canzone, che dimenticherò da un momento all'altro, quanto alla voce. Ha un timbro stupendo, e quello a cui sto pensando è che volto possa avere la persona che c'è dall'altro lato: la magia della radio. Un po' so com'è: per me è castana, capelli ricci, una donna di quelle bellezze particolari che si mimetizzano ma sono in fondo le più speciali; non mi importa come sia nella realtà, io ho deciso che debba essere così. Mi è rimasto impresso un momento in cui mentre stavo facendo la doccia lei mi raccontava un altra storia, più bella di quella che sto sentendo ora: diamonds on the inside, di Ben Harper. Penso sia stato in quel momento che ho deciso che Giulia Salvi rispondesse a queste determinate caratteristiche.

Lascio da parte un momento il dentifricio e penso un momento a quanto incommensurabilmente io preferisca la radio alla televisione: mi passano davanti immagini vecchie e nuove, di cui le ultime tutte legate a Virgin radio. 


Penso a Ringo col suo buongiorno dottor Feelgood e le storie strampalate che narra (stamattina ha raccontato di come sia possibile affittare una persona affinché faccia il cammino di Santiago al proprio posto: è geniale). Lui l'ho visto in tv, so com'è fatto: me lo immagino seduto di fronte al microfono, e lo invidio, vorrei tanto essere al suo posto, passare la mattinata a raccontare buffi aneddoti e condividere la musica che mi piace con gli ascoltatori.

Penso a Paola Maugeri e il suo Music History: programma in cui ogni volta esordisce con "il 19XX è l'anno dei..." anche di lei ho un immagine netta: è bassina, cappello di lana in testa, capelli corti ma non troppo.

Penso al Virgin Motel, in cui Ottaviano Blitch (si scriverà così?) racconta quel che succede nel motel di cui è portiere...quante volte sono stato anch'io lì dentro, entravo e lo guardavo rilassato con la sedia appoggiata al muro fumarsi la sua sigaretta

Poi tornano i ricordi un po' più vecchi...tra tutti il più bello è sempre stato il ricordo di juventus inter 3 a 0. Da piccolo seguivo il calcio, ero tifoso della juve: mi ricordo che le pay tv non erano così diffuse, io la partita lasentivo alla radio (il posticipo e gli anticipi, per le altre c'era quelli che il calcio, che adoravo per via delle ricostruzioni dei gol da parte di giocatori che ogni volta simulavano le azioni: che pena ogni volta per il portiere che era costretto a far finta di prendere sempre gol). Il posticipo lo seguivo dal letto al caldo tra le coperte, puntualmente chiamavo mio padre per sintonizzare la radio sulla stazione che trasmetteva la partita, che non ne ero capace. La telecronaca appassionata mi coinvolgeva,riuscivo a vedere tutte le azioni, mi immaginavo ogni gol. La mattina dopo curioso come non mai volevo vedere il tg per confrontare le mie marcature con quelle reali. E ricordo la delusione: il mio gol di Nedved su punizione era molto, molto più bello.

Adesso c'è il 3d, gli schermi piatti, il digitale terrestre...ma alla radio non ci pensa più nessuno. Finalmente ho vinto contro il dentifricio, gli ho dimostrato chi è il più forte...Però l'amarezza un po' rimane. Sopravviverà la radio alla rivoluzione della tv a cui assistiamo ogni giorno? Spero di sì, anche fosse solo per potermi sentire dire da mio figlio "papà, che delusione, alla radio il gol mi sembrava più bello"

venerdì 22 ottobre 2010

il bassista

Di ragazzi come lui ce n'erano tanti, non si distingueva per qualcosa in particolare che lo facesse emergere dalla folla. Una persona comune: di lui presumibilmente nel mondo non sarebbe rimasta traccia, nessuno se ne  sarebbe ricordato. Quando si soffermava su questi pensieri si sentiva un po' come il protagonista de "il cappotto" di Gogol: chissà se anche lui avrebbe poi vagato per i ponti e le vie della città come fantasma.

A volte però capita che il destino riservi delle piccole sorprese di cui magari non si comprende immediatamente la portata: al nostro ragazzo successe di trovare un basso. Non importa sapere come lo ottenne: lo comprò? Lo trovò per strada? Oppure era un regalo... La sua provenienza è sconosciuta, ai pochi amici il giovane non lo spiegò mai.

In un primo momento non se ne fece nulla: era lì, in camera, immacolato, quasi avesse avuto paura di profanarlo. Lo guardava, passava intere ore senza dedicarsi ad alcuna altra attività, senza spendere alcuna energia che non fosse rivolta alla pura osservazione e contemplazione; respirava così sommessamente in quelle occasioni che pareva d'esser morto. In fondo, non sapeva come approcciarvisi, amava la musica, ma in quanto a suonare non ne sapeva poi granchè.

Un giorno chiamò un suo amico esperto in materia chiedendogli di dargli un occhiata, quasi fosse un dottore e il basso un paziente, con la differenza che il medico poteva fare la diagnosi senza toccare l'oggetto interessato: guai a corromperlo. L'impressione che se ne fece fu che non si trattava altro che di un comunissimo basso, fuori produzione ormai in quanto sostituito da modelli migliori: non aveva caratteristiche tali da renderlo più appetibile rispetto a modelli della stessa serie, e presumibilmente nemmeno ad altri. "Il basso fatto apposta per me" pensò a metà tra il laconico e l'ironico il ragazzo, che però approfittò della gentilezza dell'amico che gli offrì di prestargli un amplificatore nel caso avesse voluto suonarlo.

Dopo tre settimane di imbarazzo, quasi avesse dovuto approcciare una ragazza (materia su cui è intuibile non fosse poi molto ferrato), lo prese in mano. Il legno era freddo al contatto, eppure sentì il calore diffondersi sin d'entro l'anima. Lo collegò a sè stesso prima ancora che all'amplificatore, erano già diventati tutt'uno. Poi, emozionato, senza sapere nemmeno cosa avrebbe fatto da lì ai successivi attimi, si decise a pizzicare le corde. E fu meraviglioso. Il suono che ne scaturì fu diretta emanazione della gioia che stava provando in quel momento: non si era mai sentito così prima di quel momento. Le sue mani si muovevano come se fossero state progettate per quel preciso momento, procedevano guidate dalla melodia che esse stesse stavano producendo. Ma ciò che più lo colpì non fu la melodia in sè, quanto la qualità del suono. Si era informato, aveva sentito altri bassi identici al suo suonare in quelle tre settimane, ma nessuno di essi corrispondeva a ciò che usciva dall'amplificatore: doveva essere merito delle corde. Chi l'avrebbe mai detto! A tutto aveva pensato tranne che a quest'evenienza: erano loro a rendere tutto così speciale, loro a vibrare all'unisono col suo cuore.

La settimana successiva sembrò essere stata solo frutto della sua immaginazione, tanto veloce stava correndo: non vi era momento che non suonasse, i pochi che doveva dedicare ad altro erano per lui motivo d'angoscia. Non sapeva spiegarlo a sè stesso, non aveva il coraggio di ammetterlo, ma era felice, e conscio del fatto che fino a quel momento era proceduto nella vita come se non avesse mai vissuto veramente.

Ma così come il destino aveva dato, beffardo decise di togliere. Al termine della settimana il giovane si svegliò di buon ora, come per compensare il tempo perduto in tutti quegli anni un poco alla volta, e dedicarsi al suo strumento quanto prima. Cosa provò quando vide che le corde erano sparite non è possibile descriverlo: a che servirebbero parole come disperazione, affanno, perifrasi come "sentì il mondo crollargli addosso" o "pensò fosse men che morto"? A nulla, non sarebbero capaci di rendere l'idea. Rimase fermo a guardare il suo strumento privato del suo tesoro, e se il vento, insensibile, non avesse fatto sbattere la porta alle sue spalle sue spalle sarebbe rimasto in trance da lì all'eternità.

Va da sè che mai e poi mai avrebbe pensato di mettere corde nuove: dissacrarlo così? Giammai, pensò. Per lungo tempo smise di suonare e di vivere, finchè lo stesso amico che gli prestò l'amplificatore lo convinse a concedere al suo basso almeno un tentativo. Non poteva deludere così colui che lo aveva tanto aiutato e stava cercando di farlo anche in quel momento, così malvolentieri accettò il regalo di una nuova muta. Il suono che ne uscì fu sì bello, ma quasi artificiale, freddo...Eppure parve all'orecchio allenato dell'amico davvero eccezionale. Furono dello stesso parere anche tutte le altre persone che lo sentirono: elogiarono il basso e il bassista, le dita e le corde. Folli! Loro non sapevano, non potevano sapere cosa aveva perso.

I primi tempi fu davvero dura, dovette autoimporsi di suonare quotidianamente, ma lo faceva più per non deludere il basso che non per soddisfare sè stesso: almeno questo glie lo doveva. Poi però pian piano cominciò a farci l'abitudine: nascose il ricordo sotto un macigno composto da elogi degli amici e dal piacere personale per l'aver imparato a conoscere il suo basso in ogni suo aspetto; ci pensò il tempo ad amalgamare il tutto per far sì che delle vecchie corde non rimase che una piacevole impressione. Oh, si, che suono meraviglioso! però perchè lamentarsi di quelle attuali? D'altronde, tutti erano entusiasti del suono che ne scaturiva, e l'entusiasmo, si sa, è contagioso.

Va riconosciuto comunque che le trame del destino rimangono spesso ignote, nessuno capirà mai perchè agisca in un dato modo o in un altro: ma stavolta forse esagerò. Dovette ricorrere a tutta la sua forza per spostare il masso che il ragazzo aveva creato, e d'incanto le vecchie corde tornarono.

Quale fu la sorpresa!  Era impossibile, non c'era alcuna spiegazione logica. Guardò le corde, e disse loro che non aveva il coraggio di toccarle un altra volta. E se fossero sparite di nuovo? Chi gli diceva poi che  tutto ciò non fosse il frutto della sua immaginazione? Caso strano, parve quasi che le corde gli stessero rispondendo, ponendogli gli stessi quesiti: chissà dov'erano state, si chiese...Avranno sofferto anche loro la medesima nostalgia? Avranno creato anche loro un masso? Ma che importava ormai...Erano tornate.

Non lo disse a nessuno, tra lui e le corde vi era una sorta di affinità elettiva, nessuno avrebbe dovuto turbarla. Come una sorta di anacronistica Penelope, di giorno montava una muta qualunque per il diletto degli amici, la notte da solo rimetteva quella che amava, scusandosi ogni volta dello stratagemma, ma a lui piaceva credere che ogni volta le corde lo perdonassero.

Pensò anche di rendere partecipe il mondo di questa sua ritrovata armonia, ma nel momento stesso in cui concepì quel pensiero, ecco che le corde sparirono. Ecco, aveva spezzato l'incantesimo! Perchè aveva avuto questo impulso di vanità, questo momento di ordinaria follia? Non seppe spiegarselo. Passò le notti seguenti ad implorare le corde di tornare, ma non lo fecero. Non provò nemmeno a montare un altra muta, mai più quel basso avrebbe dovuto suonare senza le corde che gli erano destinate, era un peccato mortale contro la sua natura, contro la loro natura.

La storia qui si conclude, se le corde decisero di tornare dal ragazzo non è noto, ma è bello ricordare quest'episodio che accadde qualche mese dopo l'infausto evento. La nostalgia era troppa nel cuore del giovane: non sopportava la vista del basso inutilizzato, l'idea che potesse essere preda della polvere, diventare la casa di qualche ragno magari. Fece quello che può apparire come un gesto irrazionale, eppure fu tra tutti il più sincero: lo suonò. Senza corde, senza amplificatore, senza un ascoltatore. Passò la notte a immaginare melodie sempre nuove, ora tristi, ora felici, di tutte le correnti musicali possibili, suonò la musica in ogni sua sfaccettatura. E la gioia che provò fu grande: ripetè questo rituale ogni notte, e in base all'umore con cui si apprestava a concludere la giornata creava canzoni diverse, ma parimenti meravigliose. Sognava? Sì, era così, non smetteva mai di ripetersi che stesse sognando. Eppure, si rispondeva, se il sogno ci appare così sincero, se la sensazione che proviamo è la medesima da svegli come da dormienti, qual è la differenza tra sogno e realtà?

mercoledì 20 ottobre 2010

Storia di un villaggio

In un villaggio, lontano ma non così tanto quanto si possa pensare, viveva una tranquilla comunità di agricoltori. Le terre intorno ad esso erano divise in tantissimi lotti, uno per ogni contadino, di pari estensione, tutti assegnati dal sindaco e tramandati di padre in figlio: la ripartizione era la stessa da generazioni, nemmeno il più vecchio tra gli abitanti ricordava dai racconti dei nonni un momento in cui non fosse esistita o fosse stata diversa.

La vita di campagna era regolata dalle severe leggi del villaggio: erano le stesse sin dalla prima stesura, non avevano mai subito nessun cambiamento, e anche a volerle discutere nessuno probabilmente si sarebbe lamentato o avrebbe avanzato qualche nuova proposta: il sistema così concepito funzionava benissimo, a che pro cercarne un altro?
La legge della comunità prevedeva che ogni lotto potesse essere lavorato con un solo tipo di coltivazione, per non impoverire il terreno: per tutti gli altri prodotti si ricorreva al commercio tra i vari contadini. Un altro punto importante prevedeva  che in ogni lotto lavorassero anche i figli dei contadini, affinchè imparassero come coltivare per poter essere in seguito capaci di gestire un lotto proprio, assegnato dal sindaco non appena fossero stati ritenuti sufficientemente capaci.

Ogni campo era recintato, eppure non ve ne era la necessità, non esisteva criminalità. Ma anche le recinzioni si tramandavano da generazioni e nessuno avrebbe mai pensato di toglierle: nati con esse attorno alle loro terre, tutti erano abituati alla loro presenza.

I momenti di più viva comunità erano, come in tutti i villaggi, le sagre e le feste: occasioni in cui si approfittava della presenza di tutti gli abitanti per discutere argomenti di interesse comune, dai più frivoli ai più seri: ma in genere il vino era troppo abbondante in quelle occasioni per poter affrontare discorsi importanti, e del resto non c'erano mai tematiche davvero cruciali da affrontare.

Un giorno un agricoltore, recatosi come sempre al suo campo col figlio per lavorare ebbe una strana impressione: gli sembrava che il suo terreno fosse diventato leggermente più piccolo. Rise di questa sua buffa allucinazione, e rise ancora più forte coi suoi amici quando alla sagra di pochi giorni dopo anche altri contadini gli descrissero quella stessa sensazione: certo che ne accadono di cose strane, pensò!
il fenomeno però continuò a ripetersi, ogni giorno che passava a ogni contadino sembrava che il proprio lotto non facesse che diminuire. Si iniziò a prendere la cosa sul serio.
La domenica successiva alla festa patronale tutti i contadini parlarono di questo stranissimo evento: i più asserivano che si trattasse di mera suggestione, altri che qualche contadino invidioso stesse cercando di aumentare i propri territori a discapito di altri membri della comunità, altri avanzarono teorie tra le più disparate: la baraonda fu generale e la mattina successiva nessuno diede peso alla cosa.

I mesi passavano, ma la situazione non voleva saperne di cambiare: la questione divenne, se possibile, ancora più evidente per tutti.
Le discussioni divennero più ansiose, qualcuno avanzò l'ipotesi di un complotto del sindaco, e chiunque, contadini e figli di tutto il villaggio, vennero convinti da questa ricostruzione: l'unica cosa da fare era andare a chiedere spiegazioni il giorno successivo.

Eppure la mattina successiva nessuno ripensava alla discussione della sera precedente: il raccolto prima di tutto, occorreva dare da mangiare alle famiglie.
Dopo poco tempo iniziarono i problemi: come è facile immaginare, con terreni sempre più piccoli la produttività diminuì drasticamente, si iniziò quindi a commerciare con più difficoltà.
I contadini erano disperati: era difficile portare avanti il lotto assegnato in queste condizioni: fu necessario fare qualcosa.Chi prima chi dopo, tutti gli agricoltori vendettero i trattori, che vennero comprati dal sindaco e rivenduti al villaggio vicino, ma non fu sufficiente. Non venne più ceduta una parte dei profitti al municipio, che stava privandoli del loro lavoro, delle loro terre: in quelle condizioni era impossibile assicurare una crescita sana delle famiglie. Vennero imposti sacrifici anche ai figli stessi dei contadini: tutti dovevano concorrere alla causa, così un giorno vennero venduti anche i loro giocattoli.
La situazione era diventata drammatica: il giorno dopo quest'ultima scelta venne stabilito di organizzare una manifestazione contro il sindaco, e ogni contadino andò a dormire speranzoso in quella che sarebbe stata la loro lotta più importante.

Ma il giorno dopo gli eventi presero una strana piega: i figli dei contadini non appena si accorsero della perdita dei loro giocattoli si indignarono. non era giusto: loro che colpe avevano di quella situazione? con che coraggio i loro padri decisero di vendere una cosa così importante? venne ingaggiata una lotta tanto spietata quanto inaspettata: i contadini che stavano marciando contro il municipio si trovarono attaccati alle spalle dai propri figli: ne scaturì una lite violentissima, e a fine giornata la stanchezza fu l'armistizio naturale della disputa: senza più energie per combattere contro il municipio, tutti tornarono alle rispettive abitazioni.

Senza più alcuna energia il giorno successivo, cercando di dimenticare gli orrori della giornata precedente, contadini e figli si recarono ai campi, ormai ridotti a fazzoletti. Non appena furono entrati e iniziarono ad arare il poco terreno rimasto le staccionate come per magia si chiusero attorno ogni abitante del villaggio: a nulla servirono le urla, a nulla valsero i tentavi di liberarsi dalle recinzioni animate: furono attimi terribili, la morte fu l'unico sollievo dalla tortura.