venerdì 19 novembre 2010

Io non mi fido

(Tutto successo realmente)

Ho fame: il mio stomaco mi ricorda che sono le  due e venti, sono fuori dalla scuola e dopo aver parlato del più e del meno con amici che passavano da quelle parti decido finalmente di avviarmi verso casa. Il mio pensiero si rivolge a quegli spaghetti col tonno che mi aspettano invitanti sul tavolo della cucina (ormai irrimediabilmente freddi, come mi ha appena ricordato mia madre per telefono, preoccupata per il fatto che non fossi ancora tornato a casa). Accendo il motorino e devo tristemente constatare che l'angolo che forma la lancetta della benzina tra la sua posizione a motore spento e acceso è ormai trascurabile: gli spaghetti dovranno attendere, devo andare a fare benzina.

Occorre dire che ho un preconcetto che mi trascino ormai da anni: vado sempre alla stessa stazione di rifornimento, e sempre indiscutibilmente mi servo della pompa 1. Non so cosa mi abbia fatto di male la 2, sta di fatto che non ho mai permesso che si avvicinasse al mio motorino. Anche perchè la pompa 1 non me lo permetterebbe: è gelosa, anche se non lo vuole ammettere. Il nostro è un rapporto speciale che non potrei incrinare: in fondo è come una donna, non accetta un tradimento da parte della sorella. So con quale fatica tollera le mie scappatelle in altre stazioni di rifornimento, ma con la compagna di una vita, con la pompa che le è da sempre affianco...no, non lo accetterebbe.

Si può ben capire quale fosse la mia seccatura (e, non si dimentichi, la mia fame) nell'osservare che la numero 1 fosse occupata. Vi è una macchina di un orribile verde tendente al grigio (vorrei dire la marca, ma non capisco nulla di auto, davvero: la mia ignoranza in fatto di vetture è disarmante), al suo fianco un signore anziano. Non importa, aspetto...Dalla numero 2 non ci vado.

L'uomo inserisce le chiavi nell'auto: "Ha finito, se ne sta andando?" gli chiedo speranzoso. "No, sto aspettando che torni il benzinaio...apre alle 3, sono le 2 e 20, attendo che torni". Perplessità...non capisco. "Può mettere benzina col self service, perchè aspettare?" Sul momento la domanda glie l'ho posta senza pensarci, in fondo è la cosa più logica. Ma la risposta mi ha lasciato letteralmente di stucco. "No, io non mi fido."

"In che senso non si fida?"
"Ah, se non c'è il benzinaio io benzina non la faccio: tanto per farti capire, sono venuto a fare benzina per tre volte, in ognuna dovevo mettere 20 euro di benzina, ho inserito ogni volta una banconota da 50...e non è mai uscito il resto! Quella macchina (Sottolineando queste ultime due parole puntando il dito contro la mia amata numero 1) mi ha derubato già tre volte! Capisci? Come faccio a fidarmi? Senza il benzinaio non gli faccio vedere manco un euro, adesso rimango qui fino alle 3 e aspetto."

Aveva assunto una posa davvero fiera: vuoi l'indice accusatore, vuoi il tono della sua voce e il ritmo con cui aveva tenuto la sua spiegazione, vuoi lo sguardo che mi incalzava in ogni pausa come a dirmi "Hai capito? Mi segui? Capisci che ho ragione?"
In quel frangente la numero 2 mi guardava come a dirmi "mi sa tanto che della 1 oggi non te ne fai niente, vieni da me, risparmi tempo e fatica" ma non appena il mio interlocutore aveva finito il suo discorso ho riso pensando all'immagine del resto che usciva dalla pompa una volta finita l'erogazione. Per fortuna non mi ha visto, non penso avrebbe preso bene il mio sorriso.

A quel punto inizio la mia spiegazione sul funzionamento del self service, sull'importanza dello scontrino, sconti ecc...ma lui non voleva proprio saperne. "No...non hai capito, non mi fido. Io soldi in più non glie ne voglio dare, aspetto fino alle 3." Mi arrendo.
Gli faccio notare come piuttosto che aspettare tanto vale cambiare i 50 euro e mettere i 20 che si era prefissato: non ci aveva pensato. Mi prega di rimanere lì ad aspettarlo (con le chiavi della macchina inserite sulla portiera, dettaglio non da poco) mentre andava a cambiare i soldi.
Due immagini contemporaneamente: la prima degli spaghetti, che so già saranno più che freddi, pazienti sul piatto fedeli come Penelope, sanno che arriverò ma non sanno quando, l'altra della numero 2. Mi fa "qua la cosa va per le lunghe, intanto che va a cambiare i soldi approfittane, tanto con la 1 non puoi far nulla che l'uomo gli ha parcheggiato praticamente addosso". Ha ragione: un ultimo sguardo alla 1 chiedendo silenziosamente perdono per il mio tradimento proprio davanti ai suoi occhi e compio il misfatto, faccio il pieno al motorino. Può sembrare assurdo, ma è stata una sensazione stranissima: l'ho giurato a me stesso, mai più fare benzina con la pompa 2.

Non appena ho finito è tornato l'uomo facendomi notare che i bar a quell'ora sono chiusi: ha ragione, come ho fatto a non pensarci...Si arrende anche lui, decide di aspettare. Mi rendo conto che forse per la prima volta in vita mia 50 euro da cambiare li avevo poichè il programma del pomeriggio prevede di passare in libreria (cosa che puntualmente mi sono dimenticato di fare) ove avevo deciso di spendere tutto quello che avevo. Ci mettiamo a contare i soldi sopra L'erogatore. "una da venti, un altra da venti, due euro, un euro, due euro, un euro, un euro, due euro, 20 centesimi, cinquanta centesimi....ah no queste sono 20 lire (si, nel portafogli tengo anche 20 lire): non ci arrivo mi dispiace" Si mette a ridere dicendomi "ma mi stai prendendo in giro? per 30 centesimi...dai prendi"

Stavo pensando di tornare al motorino e giungere dalla mia Penelope quando l'uomo mi chiede "scusami, potresti farmi benzina tu? Te l'ho detto, non mi fido...preferisco ci sia una persona, e dopo che mi ha fregato tre volte...". Sorrido: come si può dire di no a una richiesta del genere. Prendo i venti euro e gli faccio benzina, per poi portarlo davanti al pannello e spiegargli di nuovo cosa avrebbe dovuto fare in caso di erogazione parziale: in cuor mio lo so che non è servito a nulla, continuerà a non approfittare mai del self service.

Ringrazia e mi saluta felice; ognuno per la sua strada, lui con la sua orribile auto, io col mio motorino verso gli spaghetti. Mentre mangio (e solo descrivere il sapore di quella pasta col tonno meriterebbe un racconto a parte, non c'è nulla che io odi come la pasta fredda) ripenso all'incontro di poco prima e all'ostinato non volersi fidare dell'anziano.

In fondo a ragione lui; fa bene a non fidarsi della tecnologia. Ripenso a tutte le volte che ho imprecato contro un distributore per quel terribile avvenimento capitato a chiunque, il vedere lo snack incastrato che non vuole saperne di scendere nemmeno a distruggere la macchina a forza di spallate, al caffè del distributore che per quanto riguarda l'erogazione dello zucchero è dotata di libero arbitrio, perlomeno quando vede me, al pedaggio in autostrada con la sua voce odiosa che ogni automobilista che si rispetti si diverte a coprire di insulti non appena dice "grazie e arrivederci" (a tal proposito, ho sempre sognato di mettere un registratore accanto al casello solo per sentire i più coloriti), persino al distributore di preservativi, al vedere sempre più televisione e all'andare sempre meno al teatro, al distributore del latte...
Ci manca quello che è il più semplice contatto umano, il rapporto col venditore, tutte quelle piccole cose che in fondo rendono la vita più bella: posso fidarmi di un garzone, di un commerciante, del benzinaio, ma di un insieme di circuiti con cui l'unico rapporto possibile è l'inserimento di qualche moneta...no, non è possibile.

Fiducia...supponiamo assuma un valore costante, nel momento in cui se ne va a riporre nelle machine va a diminuire quella verso gli uomini, e viceversa. Quanta gente avrebbe lasciato le chiavi sulla macchina fidandosi di un ragazzo in motorino?
 Incoscienza? Ci avrà pensato? Si è fidato? Oppure era semplicemente rimbambito...No, a me piace credere nella cosa più irrazionale, si è fidato.

sabato 6 novembre 2010

Il mercante di ideali

(lo so, lo so...non ho capacità di sintesi)

"Siediti ragazzo, voglio raccontarti una storia."
Il ragazzo si sedette, senza dire una parola.
"Sono ormai duemila anni che vago in questo strano mondo, e ora devo andarmene, ma prima voglio raccontarti della mia vita. Sono il mercante di ideali, vago di città in città arricchendomi rendendo ricchi gli altri".

Vengo da un piccolo villaggio di periferia non lontano dal monte Sion, ma non c'è punto del mondo che i miei piccoli piedi non abbiano toccato.
La mia carriera iniziò con la messa a morte di un tale nelle vicinanze del mio paese,e come tanti altri miei compaesani andai ad assistere all'esecuzione. Morì con un ideale che aveva difeso fino al momento in cui esalò il suo ultimo respiro. Mi impressionò. Parlai con la gente che come me non era mancata a quell'orribile appuntamento: venni a sapere che era morto lasciando a tutti coloro che lo avevano conosciuto il medesimo ideale che aveva perseguito egli in vita. Era un re potentissimo, mi dissero, morto tutto sommato felice della sua esistenza, e nessuno tra i presenti disse alcuna brutta parola sul suo operato: erano tutti semplicemente entusiasti di ciò che egli aveva donato loro.

Da quel giorno iniziò il mio peregrinare per il mondo: come quel re, volevo anch'io diffondere la felicità.
Aprii un piccolo emporio, modesto, eppure davvero accogliente: l'unico lusso che mi concessi fu un insegna elaborata, in legno, con una bella scritta dorata che recitava "il mercante di ideali".
Entrò il primo cliente.
"Buongiorno".
"Buongiorno a lei, cosa desidera?" Lo fissai: avrà avuto a malapena venti anni, il viso ancora troppo infantile, gli occhi ancora troppo vivi per poter essere un uomo.
"Ecco...io...vorrei l'amore" e nell'esprimersi divenne subito rosso e abbassò il capo. Quanta spontaneità, e quanta tenerezza mi ha ispirato in quel momento! Si, doveva avere decisamente meno di vent'anni. Provai a stemperare la sua timidezza
"Gran bell'ideale che hai scelto!" Sorrise un poco, quasi impercettibilmente.
"Beh, mi piace, ho pensato potesse essere un ideale adatto a me...adorerei avere l'amore come guida nella mia vita. Me ne dia uno buono per favore, non di quelli che si trovano dappertutto...un amore come si deve insomma." Aveva preso un po' di coraggio: fui io a sorridere stavolta.
"Si fidi di me" e ricambiò il mio sorriso, stavolta in maniera più aperta. Andai a prendere l'amore dal magazzino e presentai il conto. "Vediamo...per avere amore dovresti darmi un cuore grande e capace di sopportare, molta pazienza, capacità  di vedere oltre le apparenze al punto giusto."
Esitò un momento: forse pensava richiedessi un prezzo leggermente troppo alto, era tentato dal riconsiderare la sua scelta, ma si affrettò a scacciare dalla mente questo pensiero e pagò quanto pattuito.
"Desidera altro?"
"No, mi basta il solo amore" sorrise di nuovo e uscì: nemmeno mi salutò, ma so che fece così per distrazione, tanto era preso dal suo ideale.

Entrò un secondo cliente, o perlomeno pensai fosse tale: dalle mani giunte a mo' di coppa e il vestiario capii che era un mendicante.
"Buon uomo, aiuti una persona che non ha più nulla". I suoi occhi erano pieni di lacrime: chissà da quanti giorni stava ripetendo la stessa solfa, da quante persone era stato respinto in malo modo.
"Io non offro mai nulla per nulla: sono un mercante" dissi con il fare più minaccioso di cui fossi capace.
Non uno sguardo d'odio, non una parola, semplicemente disgiunse le mani.
Ripresi a parlare: "Però posso aiutarti: conosci la fede?"
"E cosa sarebbe ora la fede?" fu la sua risposta, immediata e dal tono quasi canzonatorio. "è l'ideale più bello, te lo vendo se vuoi"
"Che fai, prendi in giro? Ti ho detto che non ho nulla"
"che sciocchezze vai blaterando? Non esiste nessuno che non abbia nulla"
Non esiste nessuno che non abbia nulla: quell'uomo non si sarebbe mai dimenticato di questa frase.
Ripresi a parlare "per questo ideale ci vuole tanta speranza in un mondo migliore, in una vita migliore; se ne hai, non guasterebbe anche una profonda conoscenza dei limiti della propria ragione"
Il mendicante non disse una parola, la comprò, uscì col suo ideale e chiuse la porta, non prima di darmi un ultima occhiata: ne sono sicuro, ha pensato fossi matto. Chi lo sa, magari aveva anche ragione.

Passarono i mesi, gli anni, i secoli, e i clienti andavano e venivano, ognuno in cerca di un ideale differente per cui valesse la pena vivere. Cambiava il modo di pensare, cambiavano gli ideali più gettonati, cambiai anche negozio, vagando di città in città ogni volta che in quella precedente ogni persona fosse stata mia cliente almeno una volta. Loro però, gli ideali, non li cambiavo mai: erano sempre gli stessi, proponevo sempre lo stesso prezzo. Anche l'insegna era sempre la stessa, ci ero affezionato, mi piaceva per non so quale buffo motivo. Ogni tanto mi divertivo nel fare qualche nuova creazione, prodotti sperimentali: i clienti sembravano soddisfatti.

"Patria? Cioè?"
"è un ideale strano: ci vuole attaccamento, spirito di collaborazione, voglia di sacrificarsi per un bene superiore, aderenza alle proprie tradizioni, alla propria cultura: può sembrare un prezzo eccessivo lo so, ma si  fidi di me, ne vale proprio la pena". Ogni volta davo la stessa spiegazione, e ogni volta riuscivo a convincere il cliente: dopo un po' di tempo era diventato un ideale di moda tanta era la gente ad averlo acquistato: ero fiero di me stesso, avevo messo in circolazione un ottimo prodotto.

Ogni tanto qualcuno faceva un uso sbagliato degli ideali che vendevo: evidentemente la gente non prestava attenzione al foglietto illustrativo presente in ogni confezione. A nulla servivano i miei inviti a questi pessimi acquirenti di cambiare il modo di usare la mia merce: non di rado mi sentivo rispondere "Mi scusi, ma ora che l'ho comprato posso farne ciò che voglio, è mio!" Con quest'ultimo ideale accadeva anche troppo spesso.

Sai, ragazzo, gli ideali non sono tutti uguali. Alcuni, che amo definire azzardati, non li immettevo direttamente in commercio. Li affidavo a persone di fiducia a cui davo il compito di rivenderli a loro volta nel modo che ritenevano opportuno: chiamiamola indagine di mercato, se ti piace intendere la cosa in questo modo. Su questi ideali i miei amici ci scrissero libri, altri li dipinsero: qualcuno li mise direttamente in pratica, scegliendosi di volta in volta discepoli idonei: è così che ho diffuso il socialismo e la democrazia tra gli altri. Peccato che per entrambi mi sia fidato delle persone sbagliate, oppure sono loro che hanno scelto allievi non adatti, o magari non si sono fatti capire bene loro, chi lo sa. Sta di fatto che dopo una prima ondata di ottimismo che mi indusse a venderli su larga scala il progetto non è andato a finire come speravo. Mentre però per il primo nutro ancora qualche debole speranza, per il secondo ideale ho rinunciato da tempo: svariate volte ho cercato di ritirarlo dal commercio ma ormai era diventato il mio prodotto di punta non ne ho avuto il coraggio. Pensa, ragazzo, c'è gente che addirittura ne compra a quantità industriali per poi esportarlo in tutto il mondo.

I tempi cambiano, a volte senza che ce se ne accorga: è quello che è successo a me. Nel mio ultimo anno di attività gli affari non andavano bene come in passato: mi dissero che c'era crisi, perciò mi tranquillizzai: si trattava di un momento passeggero, mi dissi. Non so dopo quanto tempo realizzai che proprio di fronte al mio negozio era apparso un enorme centro commerciale, con talmente tanti piani che lo sguardo si perdeva a contarli, chiedendomi ogni volta che ci provavo di rinunciare all'impresa. L'unica notizia che i miei occhi mi riferirono fu di un insegna luminosa: recitava così (perlomeno mi pare, c'erano neon dappertutto le lettere si distinguevano a fatica) "il centro commerciale degli slogan"
Beata la concorrenza! Di che lamentarsi, in fondo ero stato io a diffondere l'ideale del liberismo e del libero mercato.
I clienti cominciarono a diminuire, e non ci misi molto a comprenderne la causa: dall'altro lato della strada i prezzi erano molto più bassi. Anzi, ad essere sinceri in fondo non chiedevano nulla: ti rifilavano qualche parola a caso vuota di qualsivoglia importanza che però nel complesso apparivano come qualcosa di illuminante, la gente ne andava matta. In cambio cosa volevano? Una faccia di bronzo, e il rifiuto ad ogni confronto che non fosse con uno slogan più efficace. MI erano rimasti solo i clienti più affezionati, che mi fissavano come a dirmi "eh, tranquillo che io la strada non la attraverso mica" ma tutti chi prima chi dopo fecero presto a percorrere le strisce pedonali: non li ho più rivisti. Certo che questa crisi era davvero profonda, continuavo a ripetermi. Ma anche quando finì nessuno tornò. fui costretto a vendere tutto: persino l'insegna, che ora figura irriconoscibile invasa da mille luci trionfante sul centro commerciale, spodestando la già obsoleta "il centro commerciale degli slogan": persino del mio nome si erano appropriati.

Ti starai chiedendo: "e poi? cosa hai fatto?" Cosa ho fatto? Cosa avrei dovuto fare...sto andando via da questo mondo, sperando di trovare un altro pianeta in cui poter riprendere la mia attività; di ideali ne ho venduti tantissimi, ma quello che solo mi appartiene, il mio ideale, è sempre stato uno ed uno solo, cioè che tutti avessero un ideale. Ma ho fiducia, tanta fiducia: in te, e in tutti gli altri giovani come te che potranno un giorno prendere il mio posto.
Nel dire quest'ultima frase si voltò per guardare in faccia il ragazzo: aveva condotto tutto il suo monologo guardando un punto imprecisato del muro, tanto era preso dalla narrazione. Non si era accorto che il ragazzo era andato al centro commerciale già all'inizio della storia, senza farsi notare dal suo interlocutore, in coda come gli altri per poter comprare l'ennesimo slogan all'ultimo grido.

lunedì 1 novembre 2010

1 novembre


Scala a incastro al river: è la seconda volta che perdo in questo modo a poker in due giorni, sempre contro la stessa persona, sempre con la stessa probabilità dell'8% circa.

Onestamente non so per quale motivo ci siamo svegliati e abbiamo deciso di fare una partita a texas hold'em, e soprattutto non so dove l'abbia trovata io la voglia dopo essere arrivato secondo la sera precedente con quel maledettissimo 6 di fiori che ha chiuso la scala all'avversario...aver perso poi allo stesso modo con un 4 di cuori mi ha fatto iniziare la giornata di cattivo umore, complice uno dei caffè più cattivi che io abbia mai bevuto.

La sera si è dormito poco e male,chi per terra, chi su una panca di legno (il sottoscritto), chi fortunato ha preso i divani: al risveglio, se così vogliamo chiamarlo, dopo una colazione preparata con amore da me e il padrone di casa l'opinione generale che andava serpeggiando era quella di andare ognuno nella propria casa a dormire, sul serio stavolta, su un letto vero. Io no, mi dico, vado a trovare mio nonno. Al cimitero.

Per tutto il tragitto in motorino vanno sovrapponendosi le immagini di questi due giorni: il caffè, il 6 di fiori e il 4 di cuori davanti a tutte, poi i wrustel cotti alla brace bruciati irrimediabilmente in mia assenza, i due chili di pasta avanzati che abbiamo dovuto portare dalle galline contente come non mai, il camino che mi ha tenuto compagnia durante la notte insonne finchè le fiamme stesse non hanno deciso di riposare...

Arrivo al cimitero.

Subito oltre l'ingresso una coppia di amici. Scout. Stanno raccogliendo fondi per non so quale attività: la gente il 1 novembre si sente generosa e le offerte sono tutto sommato discrete: rimango a parlare con loro del più e del meno e un po' provo vergogna: loro si sono alzati alle 9 per prestare servizio, io per giocare a poker e mangiare pane e nutella con gli amici.

"Ma sei venuto da solo?"

A farmi la domanda tra i due è la ragazza: sul momento non gli attribuisco poi molta importanza, rispondo con un sorriso di si: in fondo al cimitero sono dell'idea ci si debba andare da soli, senza avvisare genitori e amici, senza dir nulla ad alcuno.

Poi però mentre vado verso mio nonno mi guardo intorno: sono l'unico ad essere da solo. Coppie, famiglie...con me invece c'è solo il casco. Sarà un impressione, mi dico, ma più vado avanti più cresce in me un senso di agitazione, direi quasi imbarazzo.

L'imbarazzo fa presto però a tramutarsi in disgusto: osservo la gente attorno a me, i volti indifferenti, gli sguardi torvi tra le persone che portano fiori, come quasi volessero dire "Ecco, lo vedi? Il mio mazzo è più bello e ricercato del tuo, io volevo più bene al mio defunto parente". Una formalità, ecco cos'è andare al cimitero: sentirsi a posto con la coscienza, un po' come andare a messa la domenica. Mi vergogno a constatarlo, ma nessuno è triste sul serio. Indifferenza, e quell'odioso senso di superiorità da parte di chi ha l'ornamento floreale più vistoso. Ho quasi riso quando ho visto un signore camminare con la testa bassa con delle mimose in mano, poche, troppo poche per poter sostenere lo sguardo di chi portava orchidee, girasoli e Dio sa solo cos'altro (non perchè ci sia bisogno del suo intervento, quanto perchè nella mia ignoranza non sono capace di riconoscere i fiori)...ma nemmeno lui è triste, come gli altri è annoiato, cammina affianco alla moglie quasi indispettita.

Finalmente sono arrivato, passo davanti un signore anziano che credo stia borbottando qualche preghiera: mi siedo vicino a lui, mio nonno è a sole due lapidi di distanza da quella che sta osservando.

Ora che sono fermo mi rendo conto di un altro fattore a cui non avevo fatto assolutamente caso: si perdoni il francesismo, ma c'è un casino della madonna. Non si può rendere tutto quel frastuono con altra descrizione, questa è l'unica che ne fornisca un immagine adeguata. Sembra di trovarsi in un centro commerciale: gente che urla, che ride, bimbi che piangono, discorsi sulla partita del giorno prima e altro che la mia memoria ha fatto rimosso in fretta. Dov'è il rispetto, per il luogo, per le persone? Ma in fondo hanno ragione loro, basta la presenza, poter dire di essere stati al cimitero...dopotutto la religione è un insieme di forme inutili, non serviva questa giornata per capirlo: ma la fede, quella vera, è tutta un altra cosa.

Mi domando: come si può condividere un momento simile? Come si può andare al cimitero in compagnia, nemmeno fosse un allegra scampagnata? Davvero, non ne sarei in grado. Il rapporto col defunto a mio parere è qualcosa di strettamente personale, bisogna dedicare il tempo che ognuno reputa necessario, non si può stare ai tempi del resto della famiglia, ognuno necessita del proprio. Occorre una comunione intima, che vedo difficile raggiungere se per il tragitto (ma anche davanti la lapide, di esempi ne ho avuti tanti oggi) si parla di tutt'altro.
Ma in fondo, ripeto, non è quello l'importante: basta poter dire alla propria coscienza "eh, io ci sono andato, mo non rompere i coglioni ALMENO fino al prossimo 1 novembre."

In tutta la baraonda c'è un suono che emerge, non per il suo volume (anche perchè coprire una qualsiasi di quelle voci era davvero un impresa): è appena un sussurro, e viene dalla mia destra.

Non sta pregando, l'uomo a due lapidi da me sta piangendo. In mezzo a questo mare di ipocrisia si erge come paladino, martire per quella religiosità che è morta anche nelle sue forme più semplici...Non riesco a crederci: non ha bisogno di dire nulla, quelli che a me sembravano borbottii erano singhiozzi. Tiene in mano un fazzoletto, sulle sue gambe un infinità che avidi hanno già raccolto tutto il suo dolore. La gente non se ne accorge, cammina davanti a lui come se niente fosse continuando a parlare ad alta voce e a ridere...Non si rendono conto, non capiscono che c'è un uomo che soffre e che ha diritto se non ad una parola di conforto perlomeno ad un po' di silenzio.

Siamo le uniche due persone sole che ho visto oggi: non ha fatto altro che piangere tutto il tempo, ogni tanto scuote la testa e trova momentaneo sollievo nell'asciugarsi e riporre il fazzoletto, per poi tirarlo fuori di nuovo pochi momenti dopo. Lo ammiro: non gli importa di nulla, piange...Vorrei imparare da lui a non avere freni inibitori, lasciare che le lacrime cadano. Lo osservo: avrà all'incirca una settantina d'anni, ma non ho mai visto occhi così vivi, capaci di piangere in quel modo. Per chi starà soffrendo così tanto? La moglie o la figlia, non lo capisco...e in fondo non avrei motivo di invadere così la sua privacy: so solo che sono più di due anni che l'ha lasciato.

continua a scuotere la testa: chissà quante volte al giorno ripete quel gesto: lo osservo, vorrei alzarmi, dirgli qualcosa, qualsiasi cosa...sento solo che non ho il coraggio di sostenere il suo sguardo, ho gli occhi pieni di lacrime, che però non hanno la minima intenzione di uscire. Mi volto, e dopo un po' mi rendo conto che mi sta osservando, si è girato: quanto avrei voluto fissarlo, comunicargli con uno sguardo che gli ero vicino, ma non l'ho fatto.

Penso che c'è sia solo da imparare dalle persone anziane: non per i soliti clichè, ma perchè avrebbero da insegnarci la spontaneità dei sentimenti: in quel momento ripenso a mio nonno, lo guardo sorridere sulla foto; lui sorrideva sempre. Per contrasto rispetto al mio compagno lui emerge per i suoi modi sì burberi ma soprattutto per l'allegria, la voglia di ridere e giocare: mi torna alla mente quel giorno in cui papà aveva invitato degli amici a casa per una partita a carte e nonno con la scusa di sostituire un attimo una persona che era in ritardo non si alzò mai dal tavolo e passò tutta la serata a ridere arrabbiarsi e bestemmiare quando perdeva e a sbeffeggiare il figlio quando vinceva. Papà e gli amici dovevano fare i turni per giocare, nonno andò a dormire alle 3 in quell'occasione pur di non abbandonare il tavolo. Mi chiamava zimpaticone (con la z, la s era davvero troppo accentuata) perchè da piccolo ridevo sempre, e io ridevo con lui: in fondo i nostri discorsi raramente andavano oltre una risata spontanea, ma ci bastava quello. 

Mi alzo, passo davanti all'uomo senza guardarlo: sta ancora piangendo, non ha mai smesso. In fondo però sono felice: c'è ancora gente che è capace di piangere (e ridere) davvero, mostrare senza pudore i propri sentimenti, a sè stesso prima ancora che agli altri, senza coprirli con veli di ipocrisia e buone maniere; lui i fiori non li ha portati. Con questi pensieri mi convinco che in fondo non vale la pena di arrabbiarsi per la gente a modo che ho incontrato oggi, piena di quella mentalità bigotta che ha oramai elevato a status symbol...non mi arrabbio nemmeno quando mentre accendo il motorino vedo l'ennesima allegra famigliola recarsi al cimitero, coi bambini che corrono e urlano e ridono e la madre con loro, il padre con lo sguardo sornione a guidare la combriccola. Davvero, non serve dedicare un minuto del mio tempo ad essere triste e deluso per persone del genere: meglio arrabbiarsi piuttosto per quello stramaledettissimo 6 di fiori al river e il pessimo caffè di stamattina.