sabato 18 dicembre 2010

Piano a due

"Un po' più vicini...Ecco, così. Ora gli sgabelli sono in posizione ideale per entrambi: ciò non toglie che averne uno unico sarebbe stato certamente migliore, e anche più elegante. Dovrò fare reclamo per questa cosa a serata conclusa"

Doveva aver pensato una cosa del genere l'uomo nell'aver dovuto sottrarre secondi preziosi all'esecuzione nel far combaciare i due posti a sedere, alzarsi per un attimo dal suo piano per prendere il secondo, posto manco a dirlo dall'altro lato della parete, interrompendo così per un attimo il contatto delle dita con i tasti del pianoforte. Certo, avrebbe potuto pensarci prima, tenerlo a portata di mano, ridurre questo angoscioso scarto, ma in fondo è la stessa cosa di quando si aspetta una chiamata importante e si sta facendo l'amore. Ci si è dimenticati di tenere il telefono senza fili affianco il letto tanto ci si è lasciati vincere dal desiderio, ricordandosene solo nel momento in cui impietoso lo si sente squillare: per lui doveva essere stata la stessa cosa, bramoso di sentire il suono di quel piano, vedere quanto accurata fosse stata l'accordatura, a tutto aveva pensato meno che a quello stupido sgabello. Rise...chissà come gli era venuta in mente una similitudine del genere, e si divertì nel supporre che anche il musicista aveva pensato la stessa identica cosa. Ma ora non importava più nulla, nè telefoni, nè sgabelli, nè altro: la compagna del pianista si era seduta, si poteva iniziare.

Non aveva mai assistito all'esecuzione di un valzer a quattro mani: magari poteva averlo sentito in qualche cd, su internet...ma dal vivo no, era la prima volta.
Ecco...avevano appena cominciato. Non aveva visto nessuno dei due staccare il tempo: le labbra non si erano mosse, nè le mani o i piedi...forse era autosuggestione, era semplicemente distratto, ma pareva fossero davvero partiti in sincrono unicamente guidati dall'istinto, come se avessero saputo che dovevano iniziare a suonare in quel preciso momento e in nessun altro, perchè prima sarebbe stato semplicemente troppo presto, e dopo altrettanto semplicemente troppo tardi.

Ad essere sinceri più che dell'assenza dello sgabello unico sarebbe stato lecito lamentarsi nel non avere qualcuno che girasse le pagine dello spartito, evitando che anche solo per un secondo o poco più una delle quattro mani dovesse separarsi in un gesto innaturale dalle altre tre. L'uomo avrebbe voluto proporsi, non solo per aggirare il piccolo inconveniente ma anche, forse soprattutto, per vedere e toccare quelli spartiti, sentire con le mani e con le orecchie il freddo inchiostro delle note tradursi in emozioni.

Si trattava di un valzer piuttosto allegro, sebbene non lo si fosse capito fin dall'inizio, la melodia sembrava sempre voler tendere a modi minori e malinconici per poi riprendersi ogni volta all'improvviso...la velocità decisamente sostenuta delle dita non si traduceva in ansia ma in gioia dirompente. L'uomo si rese conto subito di avere a che fare con degli interpreti davvero competenti, era un piacere stare lì seduti ad ascoltarli, chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dal dolce suono che proveniva dal piano, provare tutte quelle sensazioni che ogni volta compaiono nell'ascoltare della buona musica. Ma fu nell'aprirli che si rese conto di cosa davvero ci fosse di magico nel suonare il piano a quattro mani.

Un aspetto che aveva tralasciato era la disposizione dei due musicisti: all'uomo spettavano le ottave più alte, alla donna l'uso dei pedali: fu nel guardare i quattro piedi che smise da quel momento fino alla fine dell'esecuzione di prestare attenzione alla musica, come se di punto in bianco fosse diventato sordo da entrambe le orecchie. Vi era un qualcosa di speciale nel modo in cui i piedi della donna si muovevano sui pedali: nel suonarne uno l'altro si divertiva nel muoversi in un modo tutto suo: non teneva il tempo, nè seguiva gli accenti della melodia...pareva danzasse. L'uomo notò che anche i due piedi del compagno, entrambi liberi, seguivano lo stesso ballo. Pareva di vedere sotto il piano una coppia di ballerini divertirsi, sfiorarsi, ridere...ridere? Come se i piedi potessero ridere...eppure era davvero quel che sembrava stessero facendo, se l'uomo avesse dovuto descriverli non avrebbe potuto farlo altrimenti, danzanti e per l'appunto sorridenti. Cercò di seguire i loro movimenti, il loro incedere: pareva stessero facendo pattinaggio artistico su ghiaccio; pur senza toccarsi sembravano così avvinghiati, stretti, parevano riprodurre per uno strano gioco prospettico dal punto di vista dell'uomo una figura particolarmente complicata, di quelle in cui nel guardarle alla televisione si esclama "ecco, adesso la donna cade, non può reggersi in un quella posa, lui non può sostenerla così" eppure ciò non accade e si rimane abbagliati da tanta eleganza.

Dai piedi passò ad osservarne i corpi, i volti: non ci aveva fatto caso ma erano entrambi non così attraenti come si era immaginato in un primo momento: anzi, a dirla tutta la donna era parecchio bruttina. Eppure non mancavano, come i piedi, di grazia: i loro corpi,avrebbe giurato, non erano mai stati fermi dall'inizio alla fine del brano. Ecco, dai corpi riusciva a capire cosa loro provassero nel suonare: i momenti che intuiva dovevano essere più toccanti (intuiva, perchè non stava seguendo più la melodia, non poteva saperlo) erano accompagnati da un incedere dei due busti in avanti, un piegarsi verso il piano, un avvicinare i volti alla tastiera, quasi come violenti colpi di frusta, che in base alla velocità e all'intensità capì significassero in un caso tensione, in un altro rabbia, in un altro focosità...a volte quei gesti venivano accompagnati da un certo sorriso sornione da parte del musicista alla destra o dal sollevare un sopracciglio: in ogni caso a qualunque sensazione si riferissero non mancavano mai di sincronia, quasi i due fossero gemelli siamesi. Un rito di corteggiamento, un sedursi vicendevolmente, un amarsi e odiarsi e perdonarsi in continuazione, non poteva essere altro quel modo di interpretare il brano: non vi può essere musica senza amore nel partener, non si può rimanere ad un rapporto di lavoro...dovevano essere innamorati, amanti da quand'erano poco più che adolescenti...non era possibile altrimenti, troppo il feeling, la musica era collante invisibile tra i due. Se così non fosse stato, se quel tradurre le emozioni dall'inchiostro non avesse portato ad un risultato del genere, qual era allora il senso di quella melodia, da dove nasceva l'impulso a creare sentimenti dal nulla col semplice premere un tasto e percuotere una corda? Avrebbe rinnegato sè stesso e la musica se si fosse sbagliato, doveva esserci amore, di quelli che si esprimono anche solo con l'alzare il sopracciglio.

Si, doveva essere così: il loro farsi trascinare dalla musica non poteva tradursi altrimenti. Vi erano punti del brano in cui tanta era la passione, tanta l'intensità del brano e per il brano accumulatasi in cui poco ci mancava che i due innamorati si alzassero. Proprio che si alzassero! In un momento la donna era praticamente in piedi, accompagnando con questo suo gesto un accordo particolarmente espressivo. Certo che l'impeto doveva essere particolarmente travolgente...L'uomo avrebbe venduto l'anima al diavolo per saper suonare il piano e capire esattamente cosa si provasse in quei frangenti.

Fu interrotto nelle sue riflessioni da alcune risate che sentì provenire alle sue spalle. Si  voltò, un gruppo di ragazzi rideva di gusto. I musicisti non se ne erano accorti presumibilmente, il loro rito d'amore continuava, indifferente ad ogni stimolo esterno. Quasi inorridì nel vedere quei giovani fare la parodia della donna e del compagno. Ripetevano oscenamente quel loro piegarsi in avanti, quell'alzarsi, esasperandoli in ogni aspetto. L'uomo comprese che la mancanza di avvenenza, in particolare nella donna, aveva contribuito a rendere il loro muoversi piuttosto buffo. Non avevano capito nulla...In compenso nell'ascoltarli una volta finito l'odioso scimmiottamento si stupì del fatto che la musica li aveva favorevolmente impressionati, ma non potevano esimersi dal continuare a fare parodie poco dopo.

Improvvisamente il brano finì, senza preavviso, senza che l'uomo se ne fosse accorto. In realtà se avesse prestato attenzione alla melodia si sarebbe reso conto della complicata e meravigliosa preparazione al finale culminata con un magnifico e ogni volta leggermente diverso nel suo incedere turn-around. Senza dirsi una parola, senza guardarsi, i due musicisti si separarono, uscirono dalla stanza da due direzioni diverse, sotto gli applausi scroscianti del pubblico, compresi quelli dei giovani dietro l'uomo, forse addirittura i più entusiasti in assoluto.

Ma cosa era successo in realtà? Tutto quell'amore era vero, una sua immaginazione, si esauriva con l'esaurirsi del brano, era condizione necessaria ma non sufficiente...non l'aveva capito. Le ipotesi si rincorrevano nella sua testa, li vedeva prima sposi di lunga data, poi semplici turnisti che non avevano fatto altro che seguire lo spartito sotto i loro occhi, infine trasgressori, amanti che fuggivano dalle loro rispettive relazioni per queste scappatelle occasionali...Non riusciva a darsi una risposta soddisfacente, tutte le soluzioni parevano egualmente plausibili, ma capì che l'unica cosa che doveva fare era imparare a suonare il pianoforte a quattro mani, imparare a provare quell'amore così estemporaneo: in quel momento ogni dubbio si sarebbe sciolto, avrebbe trovato la risposta e si sarebbe stupito una volta che fosse apparsa nella sua evidenza di non esserne accorto prima.

venerdì 10 dicembre 2010

Mi è morto Renzi

Eccolo...di fronte alla vecchia politica, figlia di tangentopoli e del lato peggiore della prima repubblica, vedo ergersi un uomo nuovo, capace di spazzare con un sol colpo un intera classe dirigente obsoleta, inadeguata, marcia: Renzi.

Modo di dialogare semplice, niente fronzoli, un tipo modesto (e poi diciamocelo, un tipo con la parlata fiorentina ispira fiducia a prescindere): ha l'aria di quel vicino di casa a cui andare a chiedere lo zucchero quando è finito. è sindaco tra la gente, riconosce i propri errori, non si monta la testa eppure sa mettersi in gioco, non si nasconde dentro Palazzo Vecchio, lo si vede passeggiare tra i suoi concittadini, partecipare persino a qualche corsa (questa me l'ha raccontata un amico che proprio in una di queste gare l'ha visto partecipare tra gli altri concorrenti)...Provate a immaginare, non so, Alemanno che corre per le strade di Roma: non ce lo vedo proprio.

Quando tra amici si parlava di politica (Cercando di elevarsi un minimo dal livello "W il Che" o "Boia chi molla è il grido di battaglia", che paradossalmente ho constatato essere più facile a farsi tra adolescenti che tra adulti in linea di massima) ero solito dire "Eh, dovessi votare ora, spererei nella candidatura di Renzi...Pensa che bello averlo come presidente del consiglio". Manco a dirlo, mi sbagliavo di grosso.

Premetto, la mia cultura cinematografica è vergognosa, infima, ridicola, per cui non sono capace di fare altri esempi.
Nel film di Catwoman (visto 5 o 6 anni fa di malavoglia per non fare un dispiacere a mio cugino, per cui lo ricordo a malapena, cito le scene come le ricordo per sommi capi) accade che la protagonista a un certo punto si presenta ad un colloquio con la cattiva del film nella sua abitazione privata, non mi ricordo per quale motivo, cercando di risolvere chissà quale faccenda a modo loro, di nascosto. La cattivona però che fa? Aveva ucciso il marito (di nuovo, non so perchè) e chiama la polizia fingendosi sconvolta dando tutta la colpa alla povera donna gatto, che pensava di ottenere tanto da questo incontro invece si era ritrovata la polizia alle calcagna.

Il mio (ex)amato Renzi bene o male ha fatto la stessa cosa: capisco che hai a cuore la tua città, capisco che Berlusconi a Roma non ce lo trovi mai, capisco che ti ha decantato per anni chissà quali aiuti per Firenze...Ma come diamine ti viene in mente di fare un incontro privato ad Arcore? Stiamo parlando di una delle persone più intelligenti del nostro Paese (un criminale, una piaga, ma stupido non è di sicuro), come hai fatto a non pensare che potesse cogliere l'attimo per riempirti di merda data la tua visita poco istituzionale? Ma soprattutto quanto pensavi di ottenere in questo modo, sono anni che continua a farti promesse che non mantiene e pretendi di risolvere tutto con un'informale cena di pesce?

Non contento di aver fatto vacillare tutta la fede che, illuso, in lui avevo riposto, oggi mi ha dato il colpo di grazia: tutto contento di poter finalmente assistere alla sua linea di difesa essendo ospite della Gruber assieme a Travaglio, sono costretto nell'ascoltarlo a constatare che il mio credo era sbagliato.

Risulta quasi difficile ammetterlo, persino a me stesso, ma devo farmene una ragione: Renzi è un bimbo. Di quelli belli, s'intenda, che quando li vedi nel passeggino non puoi fare a meno di sorridere e intrattenerti con la madre nel dire "ma quanto è tenero", "ma quanto è cresciuto dall'ultima volta, ormai è un ometto" e cose simili, ma bambino fino al midollo, a cui devi ricordare di non accettare e carammelle dagli sconosciuti e che purtroppo babbo natale non esiste.

Ecco, sono questi i due esempi che mi interessano. Quello delle caramelle è riferito ovviamente all'avvenimento di lunedì: non riesco a passarci sopra, come si fa ad essere così ingenui...ma quello del grasso uomo di rosso vestito è più importante (oltretutto anche a tema col periodo), ed è quello che mi ha fatto più male.

Non ce l'ho con Renzi in quanto idealista, sarei il primo degli ipocriti se lo criticassi per una cosa del genere, è un sognatore, ottimista di natura, ma esagera: un po' il candido di Voltaire.
Dal mio punto di vista esagera anche Travaglio nel dire che la politica nel suo modo di vedere non si costruisce sui sogni ma sul far di conto, sui nudi e crudi fatti, in quanto il sogno è ridotto per lui alla stregua di uno slogan, ma in fondo lo capisco, ossessionato com'è (spesso giustamente) dal "sogno" berlusconiano, da quel promettere, evocare, proclamare senza mai fare.

Il limite del sindaco di firenze risiede nel credere nell'esistenza di una politica che verta ancora su ideali, su una distinzione di destra e sinistra a livello culturale: sarei il primo a voler credere in una cosa del genere ma è dall'avvento della seconda repubblica (non che prima fosse così diverso, senza dover fare i soliti nomi) che tutto ciò non ha senso. Sotto questo punto di vista do ragione a Travaglio quando dice che c'è bisogno di programmi chiari, non sogni, non di antiberlusconismo.

Fino a questo punto della trasmissione con un certo sforzo Renzi lo avrei potuto anche salvare, la politica fatta di sogni affascina anche me...ma arriviamo all'esempio di prima, babbo natale. Nel momento in cui deve far capire cos'egli intenda esattamente con sogno, cosa necessaria date le mille sfaccettature che la parola può assumere, accade ciò che non avrei mai voluto accadesse.
Di tutti gli esempi che poteva fare, di tutti gli ideali che poteva pescare, quale ha scelto? Ha detto di credere in soldoni a babbo natale. Ha parlato del grande sogno americano (e già qua ha cominciato male) che ha permesso che venisse eletto uno dei più grandi presidenti degli USA, il nero (ci ha tenuto a sottolinearlo) Obama.

Ma come? Proprio qua mi caschi? L'errore di Arcore te lo avrei anche perdonato dopo un po' di tempo, ma questo no. Tralasciando che a tutti i sedicenti uomini-di-sinistra-che-votano-sempre-a-sinistra-con-la-bandiera-della-pace-con-la-maglietta-di-Obama toglierei il diritto di voto (ma vabbè, io lo toglierei un po' a tutti, sono antidemocratico dopotutto, perlomeno rispetto all'attuale tipo di democrazia, ma su questa cosa ci tornerò un altra volta, basta che non mi si scambi per fascista), non me lo aspettavo minimamente. Anche Renzi, come tanti altri esponenti e di destra e sinistra, vittima di questo inganno, come tanti altri si ostina a credere a babbo natale. Non puoi parlarmi del sogno che ha portato alla carica di presidente un uomo così inetto quale Obama, assunto per motivi ridicoli al rango di simbolo mondiale della sinistra che può vincere (e che proprio per questo continuerà a non vincere, dopotutto se si scelgono certi modelli...che poi per porre sullo stesso piano i democratici americani e la sinistra storica europea ce ne vuole di coraggio). Si è lasciato vincere dal fascino di una figura eterea e insignificante qual è quella dell'attuale presidente degli Stati Uniti, esaltato in quanto nero è riuscito primo nella storia statunitense a ricoprire una carica così importante...per non fare poi nulla. (e questo per quanto mi riguarda è razzismo, non esaltazione dell'eliminazione delle differenze di pelle. Lo si ama perchè è nero, gli si è dato il nobel della pace perchè è nero...come lo si deve chiamare questo atteggiamento?) Eccolo l'idealismo Renziano, pieno di buoni propositi ma vuoto di sostanza.

A conclusione di questo sfogo, scritto di getto tanta era la delusione, ho deciso di abbandonare ogni mia speranza in quest'uomo...
Sorge però ora un problema, se ci saranno elezioni in seguito alla sfiducia (o comunque prima o poi si voterà, a prescindere dal 14 dicembre) dove andare a parare? Saltando a piè pari la destra e l'ancor più odioso terzo polo andiamo a sinistra...
PD?IDV?SEL? Partiti farciti di personalità obsolete, nomi di quella vechia politica che volevo fuggire e che speravo venisse smantellata da Renzi (Guai a chi mi parla di Vendola)...Brutto, davvero brutto a dirsi, ma temo che mi toccherà sperare nel movimento a cinque stelle. Spero di potermi ricredere.

mercoledì 1 dicembre 2010

Cieca

(Jamiroquai, emergency on planet heart: il primo, l'album più bello in assoluto che abbia mai fatto JK...ho questo in sottofondo mentre scrivo, ripetuto all'infinito...stona parecchio col tono del racconto ma non so perchè senza alcun motivo ci tenevo comunque a specificare cosa stessi ascoltando)

La vista: tra tutti i sensi il più menzognero, il più pericoloso. Oppure semplicemente il più vero, la differenza tra le due cose è così evanescente dopotutto.

Urla, pianti, gemiti, soffocati dalle risate delle persone attorno alla piccola creatura: il bambino era appena nato. Tanto lungo e travagliato era stato il parto che l'intero personale si era affezionato al pargolo prima ancora che venisse al mondo e alla madre. La notizia dell'appena avvenuto parto rese tutti euforici nel reparto maternità: tutti erano così impazienti di abbracciare il nuovo venuto che quasi ci si dimenticò si seguire la procedura standard post-nascita: occorreva prima di qualsiasi altra cosa bendare il bambino. La fascia era affianco al letto della neo mamma: per fortuna ci fece caso uno dei tanti infermieri venuti a congratularsi coi genitori e a coccolare il bel maschietto che nel passare la mano sui suoi occhi notò la sua mancanza, altrimenti Dio solo sa cosa sarebbe potuto accadere: si sarebbe potuto imprimere nella sua memoria inconsciamente un pericolosissimo ricordo della vista. Per fortuna ciò non accadde, venne repentinamente stretta attorno al capo del neonato, e già che c'erano tutti all'interno della sala operatoria inconsciamente si assicurarono che la loro fosse salda al proprio posto.

Occorre sapere infatti che ogni persona al mondo (ad eccezione dei più importanti tecnocrati per ovvie ragioni legate al loro ruolo fondamentale) sin dalla propria nascita veniva privata della propria vista per mezzo di una benda che avrebbe portato fino alla fine dei suoi giorni, senza mai avere la possibilità di toglierla. Sebbene all'inizio la decisione avesse trovato la strenua opposizione di artisti d'ogni sorta, a seguito di un acceso dibattito durato anni la proposta venne universalmente accettata.

Troppa, troppa era la tristezza. Troppa era sopratutto la superficialità: la gente era stanca di sentirsi giudicata e di giudicare in base al proprio aspetto esteriore, era un preconcetto, un antico retaggio di un modo di pensare proprio della prima metà del novecento. Per fortuna i tecnocrati liberarono il mondo da quest'inesprimibile angoscia.

"Negro di merda!"
Chi più poteva proferire una simile vergognosa accusa? Il razzismo era stato abolito, i tecnocrati avevano eliminato dal vocabolario questa parola. Quali distinzioni di pelle vi sono dietro una benda? E soprattutto come si poteva discriminare la pelle del prossimo se non si era in grado di sapere di che colore fosse la propria?

Non vi era più alcuna vile alterazione dei rapporti umani a causa della bellezza esteriore: l'amore, l'amicizia, d'un tratto erano ritornati sentimenti puri, sinceri, fondati su un vero scambio di ideali, di pensieri, di passioni: e queste, si sa, son tutte cose che non hanno bisogno d'esser viste.

Non vi era più alcun condizionamento pubblicitario: che senso ha indossare un bell'abito, avere una bella casa, un bel cellulare? Finalmente era tornato l'unico discrimine razionale nel libero mercato: la funzionalità, l'efficienza. I tecnocrati nella loro genialità erano riusciti a creare ciò che stuoli di economisti e moralisti nei secoli avevano potuto solo sognare: un commercio onesto e che venisse incontro alle esigenze del cittadino e non della grande industria, dove l'efficienza è l'unica discriminante nella scelta dei prodotti.

La lettura...oh, quale piacere era diventato la lettura! leggere un libro scritto in Braille era un esperienza sempre nuova, sempre emozionante...sentire le parole scorrere dalla propria mano al proprio animo, avere una correlazione diretta tra il modo in cui si toccava il libro e il proprio stato d'animo...lo si sfiorava e la mano era così delicata se si leggevano storie d'amore, la si passava in fretta se era noioso o al contrario troppo avvincente, tremava se si era scossi, violentava quasi le lettere se si era furiosi.

Tra gli altri vantaggi l'aver perso la vista portò a quello di amplificare gli altri sensi in maniera inaspettata: i cibi avevano assunto un sapore più pieno, più penetrante, le voci e i suoni intessevano sottili armonie prima impercettibili, le sfumature tra una frequenza e l'altra creavano onde che giocavano ad intrecciarsi e districarsi, in una maniera che l'orecchio, sapiente direttore d'orchestra, riusciva a rendere così armoniosa. Per non parlare dell'annusare il profumo di una rosa,o del lasciarsi invadere dall'odore dell'erba appena tagliata:  tutte esperienze che non potevano essere godute appieno se disturbati dagli occhi,ma forse tra tutti i benefici il più bello fu quello per il tatto. Sentire il corpo dell'amata sul proprio, avvertirne ogni curva, vivere ogni sua linea, ogni muscolo contratto o rilassato, goderne di ogni singolo centimetro...come potevano trovare piacere nel sesso coloro che potevano vedere?

Altra conquista fondamentale fu un enorme livello di sincerità diffusa: si può nascondere la propria essenza con un bell'abito, con uno sguardo menzognero, con un viso d'angelo, ma la voce...la voce non può tradire, il corpo non può mentire. Non vi era falsità, non era concepibile.

I tecnocrati erano riusciti insomma a creare quello che si poteva definire tranquillamente un mondo perfetto: lo avevano liberato dai mostri che giravano indisturbati nei secoli precedenti, con l'introduzione della benda lo avevano salvato. Non il fuoco, non la lampadina, non la ruota: la benda era l'invenzione più importante nella storia dell'umanità, e se si doveva ringraziare qualcuno dell'era di felicità diffusa che si stava vivendo e che non sarebbe finita il merito era unicamente loro, dei tecnocrati.

Vivevano tutti in un unico edificio, il palazzo dell'Olimpo. Non vi era giorno che non fosse dedicato al bene della comunità, che si traduceva ora in ricerche in campo medico ora nell'amministrare la cosa pubblica: non vi era bisogno di elezioni, parlamenti, il potere era nelle loro mani e nessuno glie l'avrebbe voluto togliere. E in fondo a che sarebbe servito? Non vi era nessuno al mondo che non li amasse, erano i grandi salvatori, coloro che avevano sottratto la vita al giogo della vista.

Avevano eliminato anche uno dei più grandi problemi di sempre nell'umanità, l'incubo di ogni lavoratore: la disoccupazione. Non vi era più: scomparsa, eliminata, abolita anch'essa. Oltre ad aver razionalizzato industria ed agricoltura creando nuova occupazione, tutta la manodopera in esubero veniva costantemente assorbita dal palazzo dell'Olimpo, dove vi erano sempre del lavoro da fare per rendere migliore l'edificio: bastava presentare un umile richiesta ai tecnocrati, che non sarebbe mai stata rifiutata.



Un nodo fatto male, una benda difettosa, chi può dirlo, ma un giorno ad una ragazza accadde di liberare i suoi occhi dalla prigionia a cui erano stati abituati. Impiegò molto tempo per padroneggiare a sufficienza la dura arte del guardare, non era facile abituare degli occhi rimasti inattivi per anni. Cosa doveva farsene di questo suo fortuito dono?
Provò a spiegarsi alla gente attorno a lei: nel dire che aveva perso la sua benda, che forse avrebbe iniziato a vedere: la gente pensò ad uno scherzo, nessuno se ne era mai liberato da quando era stata introdotta. Impossibile, doveva assolutamente stare scherzando. A nulla valsero i suoi tentativi di far capire che la situazione fosse seria, era stato sentenziato che si trattasse di una burla, e di cattivo gusto oltretutto.
Prese ad osservare il mondo attorno a lei: ne rimase inorridita.

Quel che vide fu qualcosa che le risultò istintivamente completamente ostile, freddo, pur non sapendo perchè. A colpirla fu di primo impatto il fatto che il cielo, l'immensa volta che ricopriva la terra, si diceva, non esisteva: vedeva sopra la sua testa un soffitto angusto, tetro, da cui la poca luce che filtrava illuminava unicamente il palazzo Olimpo. Prese poi a guardarsi intorno. La vista lottò aspramente con gli altri sensi, che si rifiutavano categoricamente di accettare quel che essa osava sostenere a gran voce. Dov'era finito il mondo meraviglioso che conosceva prima? Attorno a lei non vedeva altro che strani oggetti tutti uguali disseminati su tutta la terra fin dove lo sguardo riusciva a seguirli, ma vi era ragione di credere che essi ricoprissero l'intera superficie terrestre.

Dalle reazioni diverse delle persone di fronte a quei misteriosi macchinari capì che non si trattava di altro che di volgarissimi sensori, volti a riprodurre ora un suono, ora un odore, ora una particolare consistenza:  non vi era altro all'infuori di essi e delle strutture che li sostenevano nel mondo, oltre a lei e a quello che riconobbe come il palazzo Olimpo. Lo spettacolo che si presentava davanti ai suoi occhi era angosciante, non sapeva come comportarsi, era come paralizzata. Sensori, sensori, sensori...ovunque, solo sensori, tutti identici. Osservò con orrore persone che portavano l loro naso vicino a un sensore presumibilmente scambiandolo per chissà quale fiore, le venne naturale una rista isterica nell'osservare bambini che pensavano che stessero nuotando mentre non stavano facendo altro che agitare convulsamente le braccia in un mare, si, ma di sensori, e mille altre cose ancora: un sensore che abbaiava, un altro che cinguettava, uno che emanava aria ricca di salsedine...

Decise di recarsi al palazzo dell'Olimpo: sarebbe stata la prima non-tecnocrate a conoscerlo con gli occhi. Osservò che l'interno del palazzo era totalmente diverso da ciò che vi era all'esterno: vi erano un lusso, una bellezza, un armonia evidenti persino a lei che riusciva a vedere da così poco tempo, le pareti trasudavano ricchezza. Fece caso ad un dettaglio non di poco conto: non vi erano sensori (se non in punti specifici di corridoi e stanze che intuì dovessero servire alla numerosa manodopera che quotidianamente vi lavorava), ogni cosa era lì dentro a differenza che nel mondo esterno reale, autentica, ma soprattutto incommensurabilmente ricercata e raffinata.
Osservò i Tecnocrati, erano tutti indubbiamente felici, come e più della gente comune: ridevano, parlavano amabilmente del più e del meno.
Una cosa la colpi in particolare del loro discorrere: nell'intimità del palazzo, lontani dalle orecchie dei cittadini, si chiamavano tra loro con nomi strani: tutti, dal primo all'ultimo, erano nomi di divinità. greche, egizie, romane, nordiche, altre che non riuscì ad associare data la sua scarsa conoscenza dei vari culti e mitologie. All'inizio pensò fosse semplicemente uno scherzo innocente, poi vagando all'interno e all'esterno del palazzo, osservando il loro modo di porsi, ascoltando attentamente i loro discorsi, riuscì a capire. Il dettaglio più significativo tra tutti fu quello di osservare come alcuni tecnocrati sedessero su un divano appoggiando i loro piedi per stare più comodi...sulla schiena dei cittadini, che circondati da sensori stavano credendo invece di compiere chissà quale impegnativo compito: sistemare le piastrelle del pavimento? Controllare una tubatura? Non era quello il problema, tutto ciò era semplicemente assurdo.

Le varie religioni che esistevano nel mondo non erano nient'altro che chimere: erano i tecnocrati i veri Dei, gli unici a permettersi una vita vera, meravigliosa, figure sacre che governavano dal palazzo dell'Olimpo. L'unica funzione dei cittadini era quella di essere nient'altro che dei fedeli: il loro compito è quello di adorarli, idolatrarli, servirli, riverirli, ringraziarli, supplicare la loro intercessione e  offrire sacrifici a loro graditi: erano solo un mezzo per soddisfare la vanità dei tecnocrati. Tutta la catena di produzione era volta a soddisfare unicamente i loro bisogni, tutta la merce affluiva invisibile agli occhi del mondo nel palazzo: gli scarti, l'immondizia, tutto ciò che era sopravvissuto al loro appetito, veniva poi rilasciato al popolo, che coi dovuti sensori credeva di assaporare chissà quali pietanze. Almeno un problema nel mondo lo avevano risolto sul serio: quello dei rifiuti, pensò laconica la ragazza.

Liberare il mondo dalla schiavitù, salvarlo, ricominciare a vivere! Si, era questo ciò che era necessario fare. La ragazza aveva il potere di cambiare l'ordine delle cose, eliminare lo status quo che si era venuto a creare.

Eppure non lo fece. Troppa era la pressione, troppo gravoso l'impegno. Fu così che in lacrime si presentò spontaneamente davanti ai tecnocrati e disse: "vi prego, cancellate la mia memoria dall'esatto momento in cui ho iniziato a vedere e ridatemi una benda, voglio tornare ad essere cieca." Non poterono fare a meno di sorridere.

venerdì 19 novembre 2010

Io non mi fido

(Tutto successo realmente)

Ho fame: il mio stomaco mi ricorda che sono le  due e venti, sono fuori dalla scuola e dopo aver parlato del più e del meno con amici che passavano da quelle parti decido finalmente di avviarmi verso casa. Il mio pensiero si rivolge a quegli spaghetti col tonno che mi aspettano invitanti sul tavolo della cucina (ormai irrimediabilmente freddi, come mi ha appena ricordato mia madre per telefono, preoccupata per il fatto che non fossi ancora tornato a casa). Accendo il motorino e devo tristemente constatare che l'angolo che forma la lancetta della benzina tra la sua posizione a motore spento e acceso è ormai trascurabile: gli spaghetti dovranno attendere, devo andare a fare benzina.

Occorre dire che ho un preconcetto che mi trascino ormai da anni: vado sempre alla stessa stazione di rifornimento, e sempre indiscutibilmente mi servo della pompa 1. Non so cosa mi abbia fatto di male la 2, sta di fatto che non ho mai permesso che si avvicinasse al mio motorino. Anche perchè la pompa 1 non me lo permetterebbe: è gelosa, anche se non lo vuole ammettere. Il nostro è un rapporto speciale che non potrei incrinare: in fondo è come una donna, non accetta un tradimento da parte della sorella. So con quale fatica tollera le mie scappatelle in altre stazioni di rifornimento, ma con la compagna di una vita, con la pompa che le è da sempre affianco...no, non lo accetterebbe.

Si può ben capire quale fosse la mia seccatura (e, non si dimentichi, la mia fame) nell'osservare che la numero 1 fosse occupata. Vi è una macchina di un orribile verde tendente al grigio (vorrei dire la marca, ma non capisco nulla di auto, davvero: la mia ignoranza in fatto di vetture è disarmante), al suo fianco un signore anziano. Non importa, aspetto...Dalla numero 2 non ci vado.

L'uomo inserisce le chiavi nell'auto: "Ha finito, se ne sta andando?" gli chiedo speranzoso. "No, sto aspettando che torni il benzinaio...apre alle 3, sono le 2 e 20, attendo che torni". Perplessità...non capisco. "Può mettere benzina col self service, perchè aspettare?" Sul momento la domanda glie l'ho posta senza pensarci, in fondo è la cosa più logica. Ma la risposta mi ha lasciato letteralmente di stucco. "No, io non mi fido."

"In che senso non si fida?"
"Ah, se non c'è il benzinaio io benzina non la faccio: tanto per farti capire, sono venuto a fare benzina per tre volte, in ognuna dovevo mettere 20 euro di benzina, ho inserito ogni volta una banconota da 50...e non è mai uscito il resto! Quella macchina (Sottolineando queste ultime due parole puntando il dito contro la mia amata numero 1) mi ha derubato già tre volte! Capisci? Come faccio a fidarmi? Senza il benzinaio non gli faccio vedere manco un euro, adesso rimango qui fino alle 3 e aspetto."

Aveva assunto una posa davvero fiera: vuoi l'indice accusatore, vuoi il tono della sua voce e il ritmo con cui aveva tenuto la sua spiegazione, vuoi lo sguardo che mi incalzava in ogni pausa come a dirmi "Hai capito? Mi segui? Capisci che ho ragione?"
In quel frangente la numero 2 mi guardava come a dirmi "mi sa tanto che della 1 oggi non te ne fai niente, vieni da me, risparmi tempo e fatica" ma non appena il mio interlocutore aveva finito il suo discorso ho riso pensando all'immagine del resto che usciva dalla pompa una volta finita l'erogazione. Per fortuna non mi ha visto, non penso avrebbe preso bene il mio sorriso.

A quel punto inizio la mia spiegazione sul funzionamento del self service, sull'importanza dello scontrino, sconti ecc...ma lui non voleva proprio saperne. "No...non hai capito, non mi fido. Io soldi in più non glie ne voglio dare, aspetto fino alle 3." Mi arrendo.
Gli faccio notare come piuttosto che aspettare tanto vale cambiare i 50 euro e mettere i 20 che si era prefissato: non ci aveva pensato. Mi prega di rimanere lì ad aspettarlo (con le chiavi della macchina inserite sulla portiera, dettaglio non da poco) mentre andava a cambiare i soldi.
Due immagini contemporaneamente: la prima degli spaghetti, che so già saranno più che freddi, pazienti sul piatto fedeli come Penelope, sanno che arriverò ma non sanno quando, l'altra della numero 2. Mi fa "qua la cosa va per le lunghe, intanto che va a cambiare i soldi approfittane, tanto con la 1 non puoi far nulla che l'uomo gli ha parcheggiato praticamente addosso". Ha ragione: un ultimo sguardo alla 1 chiedendo silenziosamente perdono per il mio tradimento proprio davanti ai suoi occhi e compio il misfatto, faccio il pieno al motorino. Può sembrare assurdo, ma è stata una sensazione stranissima: l'ho giurato a me stesso, mai più fare benzina con la pompa 2.

Non appena ho finito è tornato l'uomo facendomi notare che i bar a quell'ora sono chiusi: ha ragione, come ho fatto a non pensarci...Si arrende anche lui, decide di aspettare. Mi rendo conto che forse per la prima volta in vita mia 50 euro da cambiare li avevo poichè il programma del pomeriggio prevede di passare in libreria (cosa che puntualmente mi sono dimenticato di fare) ove avevo deciso di spendere tutto quello che avevo. Ci mettiamo a contare i soldi sopra L'erogatore. "una da venti, un altra da venti, due euro, un euro, due euro, un euro, un euro, due euro, 20 centesimi, cinquanta centesimi....ah no queste sono 20 lire (si, nel portafogli tengo anche 20 lire): non ci arrivo mi dispiace" Si mette a ridere dicendomi "ma mi stai prendendo in giro? per 30 centesimi...dai prendi"

Stavo pensando di tornare al motorino e giungere dalla mia Penelope quando l'uomo mi chiede "scusami, potresti farmi benzina tu? Te l'ho detto, non mi fido...preferisco ci sia una persona, e dopo che mi ha fregato tre volte...". Sorrido: come si può dire di no a una richiesta del genere. Prendo i venti euro e gli faccio benzina, per poi portarlo davanti al pannello e spiegargli di nuovo cosa avrebbe dovuto fare in caso di erogazione parziale: in cuor mio lo so che non è servito a nulla, continuerà a non approfittare mai del self service.

Ringrazia e mi saluta felice; ognuno per la sua strada, lui con la sua orribile auto, io col mio motorino verso gli spaghetti. Mentre mangio (e solo descrivere il sapore di quella pasta col tonno meriterebbe un racconto a parte, non c'è nulla che io odi come la pasta fredda) ripenso all'incontro di poco prima e all'ostinato non volersi fidare dell'anziano.

In fondo a ragione lui; fa bene a non fidarsi della tecnologia. Ripenso a tutte le volte che ho imprecato contro un distributore per quel terribile avvenimento capitato a chiunque, il vedere lo snack incastrato che non vuole saperne di scendere nemmeno a distruggere la macchina a forza di spallate, al caffè del distributore che per quanto riguarda l'erogazione dello zucchero è dotata di libero arbitrio, perlomeno quando vede me, al pedaggio in autostrada con la sua voce odiosa che ogni automobilista che si rispetti si diverte a coprire di insulti non appena dice "grazie e arrivederci" (a tal proposito, ho sempre sognato di mettere un registratore accanto al casello solo per sentire i più coloriti), persino al distributore di preservativi, al vedere sempre più televisione e all'andare sempre meno al teatro, al distributore del latte...
Ci manca quello che è il più semplice contatto umano, il rapporto col venditore, tutte quelle piccole cose che in fondo rendono la vita più bella: posso fidarmi di un garzone, di un commerciante, del benzinaio, ma di un insieme di circuiti con cui l'unico rapporto possibile è l'inserimento di qualche moneta...no, non è possibile.

Fiducia...supponiamo assuma un valore costante, nel momento in cui se ne va a riporre nelle machine va a diminuire quella verso gli uomini, e viceversa. Quanta gente avrebbe lasciato le chiavi sulla macchina fidandosi di un ragazzo in motorino?
 Incoscienza? Ci avrà pensato? Si è fidato? Oppure era semplicemente rimbambito...No, a me piace credere nella cosa più irrazionale, si è fidato.

sabato 6 novembre 2010

Il mercante di ideali

(lo so, lo so...non ho capacità di sintesi)

"Siediti ragazzo, voglio raccontarti una storia."
Il ragazzo si sedette, senza dire una parola.
"Sono ormai duemila anni che vago in questo strano mondo, e ora devo andarmene, ma prima voglio raccontarti della mia vita. Sono il mercante di ideali, vago di città in città arricchendomi rendendo ricchi gli altri".

Vengo da un piccolo villaggio di periferia non lontano dal monte Sion, ma non c'è punto del mondo che i miei piccoli piedi non abbiano toccato.
La mia carriera iniziò con la messa a morte di un tale nelle vicinanze del mio paese,e come tanti altri miei compaesani andai ad assistere all'esecuzione. Morì con un ideale che aveva difeso fino al momento in cui esalò il suo ultimo respiro. Mi impressionò. Parlai con la gente che come me non era mancata a quell'orribile appuntamento: venni a sapere che era morto lasciando a tutti coloro che lo avevano conosciuto il medesimo ideale che aveva perseguito egli in vita. Era un re potentissimo, mi dissero, morto tutto sommato felice della sua esistenza, e nessuno tra i presenti disse alcuna brutta parola sul suo operato: erano tutti semplicemente entusiasti di ciò che egli aveva donato loro.

Da quel giorno iniziò il mio peregrinare per il mondo: come quel re, volevo anch'io diffondere la felicità.
Aprii un piccolo emporio, modesto, eppure davvero accogliente: l'unico lusso che mi concessi fu un insegna elaborata, in legno, con una bella scritta dorata che recitava "il mercante di ideali".
Entrò il primo cliente.
"Buongiorno".
"Buongiorno a lei, cosa desidera?" Lo fissai: avrà avuto a malapena venti anni, il viso ancora troppo infantile, gli occhi ancora troppo vivi per poter essere un uomo.
"Ecco...io...vorrei l'amore" e nell'esprimersi divenne subito rosso e abbassò il capo. Quanta spontaneità, e quanta tenerezza mi ha ispirato in quel momento! Si, doveva avere decisamente meno di vent'anni. Provai a stemperare la sua timidezza
"Gran bell'ideale che hai scelto!" Sorrise un poco, quasi impercettibilmente.
"Beh, mi piace, ho pensato potesse essere un ideale adatto a me...adorerei avere l'amore come guida nella mia vita. Me ne dia uno buono per favore, non di quelli che si trovano dappertutto...un amore come si deve insomma." Aveva preso un po' di coraggio: fui io a sorridere stavolta.
"Si fidi di me" e ricambiò il mio sorriso, stavolta in maniera più aperta. Andai a prendere l'amore dal magazzino e presentai il conto. "Vediamo...per avere amore dovresti darmi un cuore grande e capace di sopportare, molta pazienza, capacità  di vedere oltre le apparenze al punto giusto."
Esitò un momento: forse pensava richiedessi un prezzo leggermente troppo alto, era tentato dal riconsiderare la sua scelta, ma si affrettò a scacciare dalla mente questo pensiero e pagò quanto pattuito.
"Desidera altro?"
"No, mi basta il solo amore" sorrise di nuovo e uscì: nemmeno mi salutò, ma so che fece così per distrazione, tanto era preso dal suo ideale.

Entrò un secondo cliente, o perlomeno pensai fosse tale: dalle mani giunte a mo' di coppa e il vestiario capii che era un mendicante.
"Buon uomo, aiuti una persona che non ha più nulla". I suoi occhi erano pieni di lacrime: chissà da quanti giorni stava ripetendo la stessa solfa, da quante persone era stato respinto in malo modo.
"Io non offro mai nulla per nulla: sono un mercante" dissi con il fare più minaccioso di cui fossi capace.
Non uno sguardo d'odio, non una parola, semplicemente disgiunse le mani.
Ripresi a parlare: "Però posso aiutarti: conosci la fede?"
"E cosa sarebbe ora la fede?" fu la sua risposta, immediata e dal tono quasi canzonatorio. "è l'ideale più bello, te lo vendo se vuoi"
"Che fai, prendi in giro? Ti ho detto che non ho nulla"
"che sciocchezze vai blaterando? Non esiste nessuno che non abbia nulla"
Non esiste nessuno che non abbia nulla: quell'uomo non si sarebbe mai dimenticato di questa frase.
Ripresi a parlare "per questo ideale ci vuole tanta speranza in un mondo migliore, in una vita migliore; se ne hai, non guasterebbe anche una profonda conoscenza dei limiti della propria ragione"
Il mendicante non disse una parola, la comprò, uscì col suo ideale e chiuse la porta, non prima di darmi un ultima occhiata: ne sono sicuro, ha pensato fossi matto. Chi lo sa, magari aveva anche ragione.

Passarono i mesi, gli anni, i secoli, e i clienti andavano e venivano, ognuno in cerca di un ideale differente per cui valesse la pena vivere. Cambiava il modo di pensare, cambiavano gli ideali più gettonati, cambiai anche negozio, vagando di città in città ogni volta che in quella precedente ogni persona fosse stata mia cliente almeno una volta. Loro però, gli ideali, non li cambiavo mai: erano sempre gli stessi, proponevo sempre lo stesso prezzo. Anche l'insegna era sempre la stessa, ci ero affezionato, mi piaceva per non so quale buffo motivo. Ogni tanto mi divertivo nel fare qualche nuova creazione, prodotti sperimentali: i clienti sembravano soddisfatti.

"Patria? Cioè?"
"è un ideale strano: ci vuole attaccamento, spirito di collaborazione, voglia di sacrificarsi per un bene superiore, aderenza alle proprie tradizioni, alla propria cultura: può sembrare un prezzo eccessivo lo so, ma si  fidi di me, ne vale proprio la pena". Ogni volta davo la stessa spiegazione, e ogni volta riuscivo a convincere il cliente: dopo un po' di tempo era diventato un ideale di moda tanta era la gente ad averlo acquistato: ero fiero di me stesso, avevo messo in circolazione un ottimo prodotto.

Ogni tanto qualcuno faceva un uso sbagliato degli ideali che vendevo: evidentemente la gente non prestava attenzione al foglietto illustrativo presente in ogni confezione. A nulla servivano i miei inviti a questi pessimi acquirenti di cambiare il modo di usare la mia merce: non di rado mi sentivo rispondere "Mi scusi, ma ora che l'ho comprato posso farne ciò che voglio, è mio!" Con quest'ultimo ideale accadeva anche troppo spesso.

Sai, ragazzo, gli ideali non sono tutti uguali. Alcuni, che amo definire azzardati, non li immettevo direttamente in commercio. Li affidavo a persone di fiducia a cui davo il compito di rivenderli a loro volta nel modo che ritenevano opportuno: chiamiamola indagine di mercato, se ti piace intendere la cosa in questo modo. Su questi ideali i miei amici ci scrissero libri, altri li dipinsero: qualcuno li mise direttamente in pratica, scegliendosi di volta in volta discepoli idonei: è così che ho diffuso il socialismo e la democrazia tra gli altri. Peccato che per entrambi mi sia fidato delle persone sbagliate, oppure sono loro che hanno scelto allievi non adatti, o magari non si sono fatti capire bene loro, chi lo sa. Sta di fatto che dopo una prima ondata di ottimismo che mi indusse a venderli su larga scala il progetto non è andato a finire come speravo. Mentre però per il primo nutro ancora qualche debole speranza, per il secondo ideale ho rinunciato da tempo: svariate volte ho cercato di ritirarlo dal commercio ma ormai era diventato il mio prodotto di punta non ne ho avuto il coraggio. Pensa, ragazzo, c'è gente che addirittura ne compra a quantità industriali per poi esportarlo in tutto il mondo.

I tempi cambiano, a volte senza che ce se ne accorga: è quello che è successo a me. Nel mio ultimo anno di attività gli affari non andavano bene come in passato: mi dissero che c'era crisi, perciò mi tranquillizzai: si trattava di un momento passeggero, mi dissi. Non so dopo quanto tempo realizzai che proprio di fronte al mio negozio era apparso un enorme centro commerciale, con talmente tanti piani che lo sguardo si perdeva a contarli, chiedendomi ogni volta che ci provavo di rinunciare all'impresa. L'unica notizia che i miei occhi mi riferirono fu di un insegna luminosa: recitava così (perlomeno mi pare, c'erano neon dappertutto le lettere si distinguevano a fatica) "il centro commerciale degli slogan"
Beata la concorrenza! Di che lamentarsi, in fondo ero stato io a diffondere l'ideale del liberismo e del libero mercato.
I clienti cominciarono a diminuire, e non ci misi molto a comprenderne la causa: dall'altro lato della strada i prezzi erano molto più bassi. Anzi, ad essere sinceri in fondo non chiedevano nulla: ti rifilavano qualche parola a caso vuota di qualsivoglia importanza che però nel complesso apparivano come qualcosa di illuminante, la gente ne andava matta. In cambio cosa volevano? Una faccia di bronzo, e il rifiuto ad ogni confronto che non fosse con uno slogan più efficace. MI erano rimasti solo i clienti più affezionati, che mi fissavano come a dirmi "eh, tranquillo che io la strada non la attraverso mica" ma tutti chi prima chi dopo fecero presto a percorrere le strisce pedonali: non li ho più rivisti. Certo che questa crisi era davvero profonda, continuavo a ripetermi. Ma anche quando finì nessuno tornò. fui costretto a vendere tutto: persino l'insegna, che ora figura irriconoscibile invasa da mille luci trionfante sul centro commerciale, spodestando la già obsoleta "il centro commerciale degli slogan": persino del mio nome si erano appropriati.

Ti starai chiedendo: "e poi? cosa hai fatto?" Cosa ho fatto? Cosa avrei dovuto fare...sto andando via da questo mondo, sperando di trovare un altro pianeta in cui poter riprendere la mia attività; di ideali ne ho venduti tantissimi, ma quello che solo mi appartiene, il mio ideale, è sempre stato uno ed uno solo, cioè che tutti avessero un ideale. Ma ho fiducia, tanta fiducia: in te, e in tutti gli altri giovani come te che potranno un giorno prendere il mio posto.
Nel dire quest'ultima frase si voltò per guardare in faccia il ragazzo: aveva condotto tutto il suo monologo guardando un punto imprecisato del muro, tanto era preso dalla narrazione. Non si era accorto che il ragazzo era andato al centro commerciale già all'inizio della storia, senza farsi notare dal suo interlocutore, in coda come gli altri per poter comprare l'ennesimo slogan all'ultimo grido.

lunedì 1 novembre 2010

1 novembre


Scala a incastro al river: è la seconda volta che perdo in questo modo a poker in due giorni, sempre contro la stessa persona, sempre con la stessa probabilità dell'8% circa.

Onestamente non so per quale motivo ci siamo svegliati e abbiamo deciso di fare una partita a texas hold'em, e soprattutto non so dove l'abbia trovata io la voglia dopo essere arrivato secondo la sera precedente con quel maledettissimo 6 di fiori che ha chiuso la scala all'avversario...aver perso poi allo stesso modo con un 4 di cuori mi ha fatto iniziare la giornata di cattivo umore, complice uno dei caffè più cattivi che io abbia mai bevuto.

La sera si è dormito poco e male,chi per terra, chi su una panca di legno (il sottoscritto), chi fortunato ha preso i divani: al risveglio, se così vogliamo chiamarlo, dopo una colazione preparata con amore da me e il padrone di casa l'opinione generale che andava serpeggiando era quella di andare ognuno nella propria casa a dormire, sul serio stavolta, su un letto vero. Io no, mi dico, vado a trovare mio nonno. Al cimitero.

Per tutto il tragitto in motorino vanno sovrapponendosi le immagini di questi due giorni: il caffè, il 6 di fiori e il 4 di cuori davanti a tutte, poi i wrustel cotti alla brace bruciati irrimediabilmente in mia assenza, i due chili di pasta avanzati che abbiamo dovuto portare dalle galline contente come non mai, il camino che mi ha tenuto compagnia durante la notte insonne finchè le fiamme stesse non hanno deciso di riposare...

Arrivo al cimitero.

Subito oltre l'ingresso una coppia di amici. Scout. Stanno raccogliendo fondi per non so quale attività: la gente il 1 novembre si sente generosa e le offerte sono tutto sommato discrete: rimango a parlare con loro del più e del meno e un po' provo vergogna: loro si sono alzati alle 9 per prestare servizio, io per giocare a poker e mangiare pane e nutella con gli amici.

"Ma sei venuto da solo?"

A farmi la domanda tra i due è la ragazza: sul momento non gli attribuisco poi molta importanza, rispondo con un sorriso di si: in fondo al cimitero sono dell'idea ci si debba andare da soli, senza avvisare genitori e amici, senza dir nulla ad alcuno.

Poi però mentre vado verso mio nonno mi guardo intorno: sono l'unico ad essere da solo. Coppie, famiglie...con me invece c'è solo il casco. Sarà un impressione, mi dico, ma più vado avanti più cresce in me un senso di agitazione, direi quasi imbarazzo.

L'imbarazzo fa presto però a tramutarsi in disgusto: osservo la gente attorno a me, i volti indifferenti, gli sguardi torvi tra le persone che portano fiori, come quasi volessero dire "Ecco, lo vedi? Il mio mazzo è più bello e ricercato del tuo, io volevo più bene al mio defunto parente". Una formalità, ecco cos'è andare al cimitero: sentirsi a posto con la coscienza, un po' come andare a messa la domenica. Mi vergogno a constatarlo, ma nessuno è triste sul serio. Indifferenza, e quell'odioso senso di superiorità da parte di chi ha l'ornamento floreale più vistoso. Ho quasi riso quando ho visto un signore camminare con la testa bassa con delle mimose in mano, poche, troppo poche per poter sostenere lo sguardo di chi portava orchidee, girasoli e Dio sa solo cos'altro (non perchè ci sia bisogno del suo intervento, quanto perchè nella mia ignoranza non sono capace di riconoscere i fiori)...ma nemmeno lui è triste, come gli altri è annoiato, cammina affianco alla moglie quasi indispettita.

Finalmente sono arrivato, passo davanti un signore anziano che credo stia borbottando qualche preghiera: mi siedo vicino a lui, mio nonno è a sole due lapidi di distanza da quella che sta osservando.

Ora che sono fermo mi rendo conto di un altro fattore a cui non avevo fatto assolutamente caso: si perdoni il francesismo, ma c'è un casino della madonna. Non si può rendere tutto quel frastuono con altra descrizione, questa è l'unica che ne fornisca un immagine adeguata. Sembra di trovarsi in un centro commerciale: gente che urla, che ride, bimbi che piangono, discorsi sulla partita del giorno prima e altro che la mia memoria ha fatto rimosso in fretta. Dov'è il rispetto, per il luogo, per le persone? Ma in fondo hanno ragione loro, basta la presenza, poter dire di essere stati al cimitero...dopotutto la religione è un insieme di forme inutili, non serviva questa giornata per capirlo: ma la fede, quella vera, è tutta un altra cosa.

Mi domando: come si può condividere un momento simile? Come si può andare al cimitero in compagnia, nemmeno fosse un allegra scampagnata? Davvero, non ne sarei in grado. Il rapporto col defunto a mio parere è qualcosa di strettamente personale, bisogna dedicare il tempo che ognuno reputa necessario, non si può stare ai tempi del resto della famiglia, ognuno necessita del proprio. Occorre una comunione intima, che vedo difficile raggiungere se per il tragitto (ma anche davanti la lapide, di esempi ne ho avuti tanti oggi) si parla di tutt'altro.
Ma in fondo, ripeto, non è quello l'importante: basta poter dire alla propria coscienza "eh, io ci sono andato, mo non rompere i coglioni ALMENO fino al prossimo 1 novembre."

In tutta la baraonda c'è un suono che emerge, non per il suo volume (anche perchè coprire una qualsiasi di quelle voci era davvero un impresa): è appena un sussurro, e viene dalla mia destra.

Non sta pregando, l'uomo a due lapidi da me sta piangendo. In mezzo a questo mare di ipocrisia si erge come paladino, martire per quella religiosità che è morta anche nelle sue forme più semplici...Non riesco a crederci: non ha bisogno di dire nulla, quelli che a me sembravano borbottii erano singhiozzi. Tiene in mano un fazzoletto, sulle sue gambe un infinità che avidi hanno già raccolto tutto il suo dolore. La gente non se ne accorge, cammina davanti a lui come se niente fosse continuando a parlare ad alta voce e a ridere...Non si rendono conto, non capiscono che c'è un uomo che soffre e che ha diritto se non ad una parola di conforto perlomeno ad un po' di silenzio.

Siamo le uniche due persone sole che ho visto oggi: non ha fatto altro che piangere tutto il tempo, ogni tanto scuote la testa e trova momentaneo sollievo nell'asciugarsi e riporre il fazzoletto, per poi tirarlo fuori di nuovo pochi momenti dopo. Lo ammiro: non gli importa di nulla, piange...Vorrei imparare da lui a non avere freni inibitori, lasciare che le lacrime cadano. Lo osservo: avrà all'incirca una settantina d'anni, ma non ho mai visto occhi così vivi, capaci di piangere in quel modo. Per chi starà soffrendo così tanto? La moglie o la figlia, non lo capisco...e in fondo non avrei motivo di invadere così la sua privacy: so solo che sono più di due anni che l'ha lasciato.

continua a scuotere la testa: chissà quante volte al giorno ripete quel gesto: lo osservo, vorrei alzarmi, dirgli qualcosa, qualsiasi cosa...sento solo che non ho il coraggio di sostenere il suo sguardo, ho gli occhi pieni di lacrime, che però non hanno la minima intenzione di uscire. Mi volto, e dopo un po' mi rendo conto che mi sta osservando, si è girato: quanto avrei voluto fissarlo, comunicargli con uno sguardo che gli ero vicino, ma non l'ho fatto.

Penso che c'è sia solo da imparare dalle persone anziane: non per i soliti clichè, ma perchè avrebbero da insegnarci la spontaneità dei sentimenti: in quel momento ripenso a mio nonno, lo guardo sorridere sulla foto; lui sorrideva sempre. Per contrasto rispetto al mio compagno lui emerge per i suoi modi sì burberi ma soprattutto per l'allegria, la voglia di ridere e giocare: mi torna alla mente quel giorno in cui papà aveva invitato degli amici a casa per una partita a carte e nonno con la scusa di sostituire un attimo una persona che era in ritardo non si alzò mai dal tavolo e passò tutta la serata a ridere arrabbiarsi e bestemmiare quando perdeva e a sbeffeggiare il figlio quando vinceva. Papà e gli amici dovevano fare i turni per giocare, nonno andò a dormire alle 3 in quell'occasione pur di non abbandonare il tavolo. Mi chiamava zimpaticone (con la z, la s era davvero troppo accentuata) perchè da piccolo ridevo sempre, e io ridevo con lui: in fondo i nostri discorsi raramente andavano oltre una risata spontanea, ma ci bastava quello. 

Mi alzo, passo davanti all'uomo senza guardarlo: sta ancora piangendo, non ha mai smesso. In fondo però sono felice: c'è ancora gente che è capace di piangere (e ridere) davvero, mostrare senza pudore i propri sentimenti, a sè stesso prima ancora che agli altri, senza coprirli con veli di ipocrisia e buone maniere; lui i fiori non li ha portati. Con questi pensieri mi convinco che in fondo non vale la pena di arrabbiarsi per la gente a modo che ho incontrato oggi, piena di quella mentalità bigotta che ha oramai elevato a status symbol...non mi arrabbio nemmeno quando mentre accendo il motorino vedo l'ennesima allegra famigliola recarsi al cimitero, coi bambini che corrono e urlano e ridono e la madre con loro, il padre con lo sguardo sornione a guidare la combriccola. Davvero, non serve dedicare un minuto del mio tempo ad essere triste e deluso per persone del genere: meglio arrabbiarsi piuttosto per quello stramaledettissimo 6 di fiori al river e il pessimo caffè di stamattina.

giovedì 28 ottobre 2010

Gli Altri

(Dopo un illuminante battibecco scolastico)

Buffa entità, questo fantomatico Gli Altri: è tra i primi incontri che facciamo da piccoli, ma tra i più importanti, perché col passare del tempo ci rendiamo conto di quanto questo Essere divino sia in grado di condizionare la nostra vita.

"Mamma, a Paolo e a Luca hanno regalato una bici nuova" a cui dopo un breve attimo di esitazione, come per raccogliere il coraggio necessario, seguiva un "La compri pure a me per favore?". Salvo rare eccezioni la risposta suonava più o meno così: "Ma a te che ti interessa di quel che fanno Gli Altri? Pensa a te, non guardare a quello che succede a Gli Altri!" E io lì che pensavo a chi avesse chiamato in causa questo fantomatico Gli Altri...io stavo parlando di Paolo e Luca, nessun altro! da dove è spuntato questo terzo incomodo?

Eppure non ci si è accorti che quello è stato il primo passo verso l'interiorizzazione de Gli Altri: eccolo, è entrato dentro di me, il mio Io sta iniziando a contrapporre a sè stesso, come in una lotta titanica, Gli Altri, e sarà sfida eterna.

Passa il tempo, e il nostro rapporto con questa strana sostanza non fa che evolversi: ci si trova adolescenti che si capisce la posizione della netta superiorità dell'Io: "non sarò mai come Gli Altri, sarò diverso". Ci siamo sentiti tutti un po' ribelli, abbiamo sempre voluto distinguerci, innalzare ancora più in alto quel muro che ci divide da Gli Altri, quasi sia un mostro da evitare.

Prima o poi però ci si rende conto che non riusciamo a fare a meno de Gli Altri: ci affascina, abbiamo bisogno di confrontarci con Lui: guardiamo un attimo oltre il muro e ci accorgiamo in un lampo che al di là è tutto più bello. Lo spiamo...ma lui non se ne accorge. Oppure fa semplicemente finta di non accorgersene, chi lo sa. Sta di fatto che vogliamo essere un po' meno Io e un po' più Gli altri. Iniziano così a spuntare i jeans a vita bassa, si inizia a sentire determinata musica, affinché riusciamo a sentirci accettati da Gli Altri.

Ecco, se ne è accorto, e ci ha sorriso: si è reso conto che siamo diventati un po' più simili: però il muro non lo scavalchiamo. C'è ancora l'Io, a cui non vogliamo ammettere che non vogliamo più essere Io ma essere come Gli altri: è geloso, chissà che scenata farebbe se lo venisse a sapere...Per sicurezza meglio rimanere da questa parte...Però nel frattempo Gli Altri è già dentro di noi.

L'Io si sente punto nel vivo, intuisce il contrasto che sta nascendo: odia Gli Altri, rivuole l'indipendenza. Eppure, cieco e sordo, finge di non accorgersi che Gli Altri ci sta lanciando dall'altra parte del muro tutto ciò di cui abbiamo bisogno: ideali, idee, cibo, aiuto, affetto...Non vuole ammetterlo, ma Gli altri ci sta davvero dando una mano.

Iniziano a spuntare problemi di ordine comune, di quelli che si incontrano nella vita di tutti i giorni: una volta ad esempio è successo che anche Gli Altri si trovasse a scuola. Occorreva decidere chi andasse volontario la lezione successiva di matematica. L'Io prese parola: "ehi, ma sono pieno di impegni! ci andasse Gli Altri, che non ha mai nulla da fare". In fondo era vero: il giorno successivo aveva l'interrogazione di storia, e lui sapeva benissimo che Gli Altri aveva tempo libero a disposizione, lo aveva spiato dall'altro lato del muro. Certo, era immenso lo spazio al di là di esso, ma era sicuro che Gli Altri non stesse facendo nulla di importante e che avrebbe potuto tranquillamente pensarci lui a studiare matematica.

Dopo non poco tempo l'Io capì che per qualsiasi problema non c'era bisogno di affannarsi, poteva pensarci Gli Altri al posto suo. Fu così che la volta successiva, pur avendo un intero pomeriggio da poter dedicare allo studio accusò Gli Altri di essere un ingrato, un fannullone, che avrebbe potuto studiare anche quella volta lui ed andare volontario: in fondo i suoi impegni non erano poi così importanti; l'Io disse che sarebbe potuto andare volontario la volta successiva ma, come in fondo era lecito aspettarsi, non lo fece e lasciò a Gli Altri l'amaro compito anche in quell'occasione.

Si cresce, e bisogna cercare un lavoro, metter su famiglia...Certo che ce ne sono di difficoltà: però Gli Altri non capisce, e si mette in mezzo ad ogni piccolo problema. E il sindacato, e il governo, e gli altri lavoratori...Gli Altri è ovunque! Possibile che non lasci libero l'Io e lo riempa di così tanti problemi? Lo stipendio è basso, ma mai che Gli Altri organizzi uno sciopero. C'è da rimettere a posto la luce del piano terra al condominio: ma non sia mai che Gli Altri si decida a sostituirla...Vorremmo anche provare ad avere nuovi amici, ma pare che Gli Altri non capisca fino in fondo che persone stupende che siamo: pazienza, peggio per lui.

Dopo un po' entra la consapevolezza che Gli Altri non si diverte solo a rendere la vita difficile all'Io, ma alla nazione intera: per colpa de Gli Altri aumenta l'effetto serra, Gli Altri rubano il lavoro a noi cittadini comunitari, Gli Altri non pagano le tasse e aumenta la pressione fiscale. Per fortuna ieri in televisione hanno detto che stiamo uscendo dalla crisi prima e meglio de Gli Altri.

Nei momenti di difficoltà ciononostante si attendeva fiduciosi l'intervento de Gli Altri: ci penserà lui a trovarmi lavoro, se c'è una rapina chiamerà lui la polizia, se c'è un pedone sulle strisce che attende di attraversare la strada accelero: tanto Gli Altri lo farà passare.

Si viene così a creare questa situazione paradossale per cui c'è un eterno rapporto d'odio e d'amore nei confronti de Gli Altri, rapporto che si esplica nella continua indecisione tra lo scavalcare il muro e rimanere da questo lato: seguire l'Io o Gli Altri?

Dopo un lunghissimo periodo di indecisione venne in punto di morte la curiosità di provare a oltrepassare il muro, diventato giorno dopo giorno sempre più alto e più spesso. L'Io stesso decise di salire. Era in cima, guardò un ultima in fondo, poi si girò verso il lato de Gli Altri, così simile eppure così diverso da lui. Prese la rincorsa e saltò dall'altro lato. O perlomeno così pensava: lo specchio che era sempre stato sulla cima del muro andò in frantumi e l'Io precipitò oltre di esso, dove vi era il vuoto. Gli Altri non era mai esistito.

sabato 23 ottobre 2010

spirit of the radio


(premessa...il titolo è una canzone dei Rush, rendeva l'idea)

è sabato mattina, sono in bagno a lavarmi i denti e penso alla traccia del compito di storia. Sarà la differente visione dell'imperialismo tra Lenin, Hobson e Fieldhouse, sono pronto a scommetterci (per l'onor di cronaca: ho sbagliato, ma non ho mai azzeccato una previsione di una traccia del compito di storia negli ultimi tre anni che fosse una, eppure non mi arrendo e continuo a tirare a indovinare).


La radio è accesa. A volumi bassi, s'intende, sennò poi un parente random si sveglia e si incazza...frequenza 96,7, virgin radio. In sottofondo alle operazioni mattutine c'è stand by me: cosa si può pretendere di meglio?

Sono alle prese con il dentifricio, so che in fondo ce n'è ancora un po'...ho la confezione nuova affianco ma voglio che sia finito, voglio vincere quella lotta che si trasmette di genitore (quasi sempre la madre) ai figli: guai ad aprire un dentifricio nuovo se ancora c'è un po' di quello vecchio. E io lo osservo: si presenta come un veterano reduce da chissà quale gloriosa guerra in attesa del desiderato pensionamento, il cestino. Ma dovrà sudarselo il riposo, dovrà obbedire al mio volere: del resto, hanno aumentato l'età pensionabile, penso che valga anche per i dentifrici.

E nel bel mezzo della lotta, quando ormai so che sto per diventare vincitore, mi fermo: c'è rock in translation. In fondo, della musica che trasmette la radio mi importa poco, amo sentire voci che mi tengano compagnia. Giulia Salvi è la voce narrante: sta traducendo una canzone degli Stone Temple Pilots, interstate love song è il suo titolo; Una canzone che ho sentito miriadi di volte, di cui ignoravo sia il titolo sia il gruppo. E ora invece mi viene raccontata, perchè in fondo la musica può venire anche raccontata, non solo ascoltata...e tutta la mia attenzione è rivolta alla storia in cui la ragazza mi sta trasportando. Mi svela i segreti dietro questo testo, dei motivi che hanno portato a questa canzone: l'eroina, l'amore di uno dei membri del gruppo per una donna...

Ora che ci faccio caso però, non sto concentrato tanto sulle parole della canzone, che dimenticherò da un momento all'altro, quanto alla voce. Ha un timbro stupendo, e quello a cui sto pensando è che volto possa avere la persona che c'è dall'altro lato: la magia della radio. Un po' so com'è: per me è castana, capelli ricci, una donna di quelle bellezze particolari che si mimetizzano ma sono in fondo le più speciali; non mi importa come sia nella realtà, io ho deciso che debba essere così. Mi è rimasto impresso un momento in cui mentre stavo facendo la doccia lei mi raccontava un altra storia, più bella di quella che sto sentendo ora: diamonds on the inside, di Ben Harper. Penso sia stato in quel momento che ho deciso che Giulia Salvi rispondesse a queste determinate caratteristiche.

Lascio da parte un momento il dentifricio e penso un momento a quanto incommensurabilmente io preferisca la radio alla televisione: mi passano davanti immagini vecchie e nuove, di cui le ultime tutte legate a Virgin radio. 


Penso a Ringo col suo buongiorno dottor Feelgood e le storie strampalate che narra (stamattina ha raccontato di come sia possibile affittare una persona affinché faccia il cammino di Santiago al proprio posto: è geniale). Lui l'ho visto in tv, so com'è fatto: me lo immagino seduto di fronte al microfono, e lo invidio, vorrei tanto essere al suo posto, passare la mattinata a raccontare buffi aneddoti e condividere la musica che mi piace con gli ascoltatori.

Penso a Paola Maugeri e il suo Music History: programma in cui ogni volta esordisce con "il 19XX è l'anno dei..." anche di lei ho un immagine netta: è bassina, cappello di lana in testa, capelli corti ma non troppo.

Penso al Virgin Motel, in cui Ottaviano Blitch (si scriverà così?) racconta quel che succede nel motel di cui è portiere...quante volte sono stato anch'io lì dentro, entravo e lo guardavo rilassato con la sedia appoggiata al muro fumarsi la sua sigaretta

Poi tornano i ricordi un po' più vecchi...tra tutti il più bello è sempre stato il ricordo di juventus inter 3 a 0. Da piccolo seguivo il calcio, ero tifoso della juve: mi ricordo che le pay tv non erano così diffuse, io la partita lasentivo alla radio (il posticipo e gli anticipi, per le altre c'era quelli che il calcio, che adoravo per via delle ricostruzioni dei gol da parte di giocatori che ogni volta simulavano le azioni: che pena ogni volta per il portiere che era costretto a far finta di prendere sempre gol). Il posticipo lo seguivo dal letto al caldo tra le coperte, puntualmente chiamavo mio padre per sintonizzare la radio sulla stazione che trasmetteva la partita, che non ne ero capace. La telecronaca appassionata mi coinvolgeva,riuscivo a vedere tutte le azioni, mi immaginavo ogni gol. La mattina dopo curioso come non mai volevo vedere il tg per confrontare le mie marcature con quelle reali. E ricordo la delusione: il mio gol di Nedved su punizione era molto, molto più bello.

Adesso c'è il 3d, gli schermi piatti, il digitale terrestre...ma alla radio non ci pensa più nessuno. Finalmente ho vinto contro il dentifricio, gli ho dimostrato chi è il più forte...Però l'amarezza un po' rimane. Sopravviverà la radio alla rivoluzione della tv a cui assistiamo ogni giorno? Spero di sì, anche fosse solo per potermi sentire dire da mio figlio "papà, che delusione, alla radio il gol mi sembrava più bello"

venerdì 22 ottobre 2010

il bassista

Di ragazzi come lui ce n'erano tanti, non si distingueva per qualcosa in particolare che lo facesse emergere dalla folla. Una persona comune: di lui presumibilmente nel mondo non sarebbe rimasta traccia, nessuno se ne  sarebbe ricordato. Quando si soffermava su questi pensieri si sentiva un po' come il protagonista de "il cappotto" di Gogol: chissà se anche lui avrebbe poi vagato per i ponti e le vie della città come fantasma.

A volte però capita che il destino riservi delle piccole sorprese di cui magari non si comprende immediatamente la portata: al nostro ragazzo successe di trovare un basso. Non importa sapere come lo ottenne: lo comprò? Lo trovò per strada? Oppure era un regalo... La sua provenienza è sconosciuta, ai pochi amici il giovane non lo spiegò mai.

In un primo momento non se ne fece nulla: era lì, in camera, immacolato, quasi avesse avuto paura di profanarlo. Lo guardava, passava intere ore senza dedicarsi ad alcuna altra attività, senza spendere alcuna energia che non fosse rivolta alla pura osservazione e contemplazione; respirava così sommessamente in quelle occasioni che pareva d'esser morto. In fondo, non sapeva come approcciarvisi, amava la musica, ma in quanto a suonare non ne sapeva poi granchè.

Un giorno chiamò un suo amico esperto in materia chiedendogli di dargli un occhiata, quasi fosse un dottore e il basso un paziente, con la differenza che il medico poteva fare la diagnosi senza toccare l'oggetto interessato: guai a corromperlo. L'impressione che se ne fece fu che non si trattava altro che di un comunissimo basso, fuori produzione ormai in quanto sostituito da modelli migliori: non aveva caratteristiche tali da renderlo più appetibile rispetto a modelli della stessa serie, e presumibilmente nemmeno ad altri. "Il basso fatto apposta per me" pensò a metà tra il laconico e l'ironico il ragazzo, che però approfittò della gentilezza dell'amico che gli offrì di prestargli un amplificatore nel caso avesse voluto suonarlo.

Dopo tre settimane di imbarazzo, quasi avesse dovuto approcciare una ragazza (materia su cui è intuibile non fosse poi molto ferrato), lo prese in mano. Il legno era freddo al contatto, eppure sentì il calore diffondersi sin d'entro l'anima. Lo collegò a sè stesso prima ancora che all'amplificatore, erano già diventati tutt'uno. Poi, emozionato, senza sapere nemmeno cosa avrebbe fatto da lì ai successivi attimi, si decise a pizzicare le corde. E fu meraviglioso. Il suono che ne scaturì fu diretta emanazione della gioia che stava provando in quel momento: non si era mai sentito così prima di quel momento. Le sue mani si muovevano come se fossero state progettate per quel preciso momento, procedevano guidate dalla melodia che esse stesse stavano producendo. Ma ciò che più lo colpì non fu la melodia in sè, quanto la qualità del suono. Si era informato, aveva sentito altri bassi identici al suo suonare in quelle tre settimane, ma nessuno di essi corrispondeva a ciò che usciva dall'amplificatore: doveva essere merito delle corde. Chi l'avrebbe mai detto! A tutto aveva pensato tranne che a quest'evenienza: erano loro a rendere tutto così speciale, loro a vibrare all'unisono col suo cuore.

La settimana successiva sembrò essere stata solo frutto della sua immaginazione, tanto veloce stava correndo: non vi era momento che non suonasse, i pochi che doveva dedicare ad altro erano per lui motivo d'angoscia. Non sapeva spiegarlo a sè stesso, non aveva il coraggio di ammetterlo, ma era felice, e conscio del fatto che fino a quel momento era proceduto nella vita come se non avesse mai vissuto veramente.

Ma così come il destino aveva dato, beffardo decise di togliere. Al termine della settimana il giovane si svegliò di buon ora, come per compensare il tempo perduto in tutti quegli anni un poco alla volta, e dedicarsi al suo strumento quanto prima. Cosa provò quando vide che le corde erano sparite non è possibile descriverlo: a che servirebbero parole come disperazione, affanno, perifrasi come "sentì il mondo crollargli addosso" o "pensò fosse men che morto"? A nulla, non sarebbero capaci di rendere l'idea. Rimase fermo a guardare il suo strumento privato del suo tesoro, e se il vento, insensibile, non avesse fatto sbattere la porta alle sue spalle sue spalle sarebbe rimasto in trance da lì all'eternità.

Va da sè che mai e poi mai avrebbe pensato di mettere corde nuove: dissacrarlo così? Giammai, pensò. Per lungo tempo smise di suonare e di vivere, finchè lo stesso amico che gli prestò l'amplificatore lo convinse a concedere al suo basso almeno un tentativo. Non poteva deludere così colui che lo aveva tanto aiutato e stava cercando di farlo anche in quel momento, così malvolentieri accettò il regalo di una nuova muta. Il suono che ne uscì fu sì bello, ma quasi artificiale, freddo...Eppure parve all'orecchio allenato dell'amico davvero eccezionale. Furono dello stesso parere anche tutte le altre persone che lo sentirono: elogiarono il basso e il bassista, le dita e le corde. Folli! Loro non sapevano, non potevano sapere cosa aveva perso.

I primi tempi fu davvero dura, dovette autoimporsi di suonare quotidianamente, ma lo faceva più per non deludere il basso che non per soddisfare sè stesso: almeno questo glie lo doveva. Poi però pian piano cominciò a farci l'abitudine: nascose il ricordo sotto un macigno composto da elogi degli amici e dal piacere personale per l'aver imparato a conoscere il suo basso in ogni suo aspetto; ci pensò il tempo ad amalgamare il tutto per far sì che delle vecchie corde non rimase che una piacevole impressione. Oh, si, che suono meraviglioso! però perchè lamentarsi di quelle attuali? D'altronde, tutti erano entusiasti del suono che ne scaturiva, e l'entusiasmo, si sa, è contagioso.

Va riconosciuto comunque che le trame del destino rimangono spesso ignote, nessuno capirà mai perchè agisca in un dato modo o in un altro: ma stavolta forse esagerò. Dovette ricorrere a tutta la sua forza per spostare il masso che il ragazzo aveva creato, e d'incanto le vecchie corde tornarono.

Quale fu la sorpresa!  Era impossibile, non c'era alcuna spiegazione logica. Guardò le corde, e disse loro che non aveva il coraggio di toccarle un altra volta. E se fossero sparite di nuovo? Chi gli diceva poi che  tutto ciò non fosse il frutto della sua immaginazione? Caso strano, parve quasi che le corde gli stessero rispondendo, ponendogli gli stessi quesiti: chissà dov'erano state, si chiese...Avranno sofferto anche loro la medesima nostalgia? Avranno creato anche loro un masso? Ma che importava ormai...Erano tornate.

Non lo disse a nessuno, tra lui e le corde vi era una sorta di affinità elettiva, nessuno avrebbe dovuto turbarla. Come una sorta di anacronistica Penelope, di giorno montava una muta qualunque per il diletto degli amici, la notte da solo rimetteva quella che amava, scusandosi ogni volta dello stratagemma, ma a lui piaceva credere che ogni volta le corde lo perdonassero.

Pensò anche di rendere partecipe il mondo di questa sua ritrovata armonia, ma nel momento stesso in cui concepì quel pensiero, ecco che le corde sparirono. Ecco, aveva spezzato l'incantesimo! Perchè aveva avuto questo impulso di vanità, questo momento di ordinaria follia? Non seppe spiegarselo. Passò le notti seguenti ad implorare le corde di tornare, ma non lo fecero. Non provò nemmeno a montare un altra muta, mai più quel basso avrebbe dovuto suonare senza le corde che gli erano destinate, era un peccato mortale contro la sua natura, contro la loro natura.

La storia qui si conclude, se le corde decisero di tornare dal ragazzo non è noto, ma è bello ricordare quest'episodio che accadde qualche mese dopo l'infausto evento. La nostalgia era troppa nel cuore del giovane: non sopportava la vista del basso inutilizzato, l'idea che potesse essere preda della polvere, diventare la casa di qualche ragno magari. Fece quello che può apparire come un gesto irrazionale, eppure fu tra tutti il più sincero: lo suonò. Senza corde, senza amplificatore, senza un ascoltatore. Passò la notte a immaginare melodie sempre nuove, ora tristi, ora felici, di tutte le correnti musicali possibili, suonò la musica in ogni sua sfaccettatura. E la gioia che provò fu grande: ripetè questo rituale ogni notte, e in base all'umore con cui si apprestava a concludere la giornata creava canzoni diverse, ma parimenti meravigliose. Sognava? Sì, era così, non smetteva mai di ripetersi che stesse sognando. Eppure, si rispondeva, se il sogno ci appare così sincero, se la sensazione che proviamo è la medesima da svegli come da dormienti, qual è la differenza tra sogno e realtà?

mercoledì 20 ottobre 2010

Storia di un villaggio

In un villaggio, lontano ma non così tanto quanto si possa pensare, viveva una tranquilla comunità di agricoltori. Le terre intorno ad esso erano divise in tantissimi lotti, uno per ogni contadino, di pari estensione, tutti assegnati dal sindaco e tramandati di padre in figlio: la ripartizione era la stessa da generazioni, nemmeno il più vecchio tra gli abitanti ricordava dai racconti dei nonni un momento in cui non fosse esistita o fosse stata diversa.

La vita di campagna era regolata dalle severe leggi del villaggio: erano le stesse sin dalla prima stesura, non avevano mai subito nessun cambiamento, e anche a volerle discutere nessuno probabilmente si sarebbe lamentato o avrebbe avanzato qualche nuova proposta: il sistema così concepito funzionava benissimo, a che pro cercarne un altro?
La legge della comunità prevedeva che ogni lotto potesse essere lavorato con un solo tipo di coltivazione, per non impoverire il terreno: per tutti gli altri prodotti si ricorreva al commercio tra i vari contadini. Un altro punto importante prevedeva  che in ogni lotto lavorassero anche i figli dei contadini, affinchè imparassero come coltivare per poter essere in seguito capaci di gestire un lotto proprio, assegnato dal sindaco non appena fossero stati ritenuti sufficientemente capaci.

Ogni campo era recintato, eppure non ve ne era la necessità, non esisteva criminalità. Ma anche le recinzioni si tramandavano da generazioni e nessuno avrebbe mai pensato di toglierle: nati con esse attorno alle loro terre, tutti erano abituati alla loro presenza.

I momenti di più viva comunità erano, come in tutti i villaggi, le sagre e le feste: occasioni in cui si approfittava della presenza di tutti gli abitanti per discutere argomenti di interesse comune, dai più frivoli ai più seri: ma in genere il vino era troppo abbondante in quelle occasioni per poter affrontare discorsi importanti, e del resto non c'erano mai tematiche davvero cruciali da affrontare.

Un giorno un agricoltore, recatosi come sempre al suo campo col figlio per lavorare ebbe una strana impressione: gli sembrava che il suo terreno fosse diventato leggermente più piccolo. Rise di questa sua buffa allucinazione, e rise ancora più forte coi suoi amici quando alla sagra di pochi giorni dopo anche altri contadini gli descrissero quella stessa sensazione: certo che ne accadono di cose strane, pensò!
il fenomeno però continuò a ripetersi, ogni giorno che passava a ogni contadino sembrava che il proprio lotto non facesse che diminuire. Si iniziò a prendere la cosa sul serio.
La domenica successiva alla festa patronale tutti i contadini parlarono di questo stranissimo evento: i più asserivano che si trattasse di mera suggestione, altri che qualche contadino invidioso stesse cercando di aumentare i propri territori a discapito di altri membri della comunità, altri avanzarono teorie tra le più disparate: la baraonda fu generale e la mattina successiva nessuno diede peso alla cosa.

I mesi passavano, ma la situazione non voleva saperne di cambiare: la questione divenne, se possibile, ancora più evidente per tutti.
Le discussioni divennero più ansiose, qualcuno avanzò l'ipotesi di un complotto del sindaco, e chiunque, contadini e figli di tutto il villaggio, vennero convinti da questa ricostruzione: l'unica cosa da fare era andare a chiedere spiegazioni il giorno successivo.

Eppure la mattina successiva nessuno ripensava alla discussione della sera precedente: il raccolto prima di tutto, occorreva dare da mangiare alle famiglie.
Dopo poco tempo iniziarono i problemi: come è facile immaginare, con terreni sempre più piccoli la produttività diminuì drasticamente, si iniziò quindi a commerciare con più difficoltà.
I contadini erano disperati: era difficile portare avanti il lotto assegnato in queste condizioni: fu necessario fare qualcosa.Chi prima chi dopo, tutti gli agricoltori vendettero i trattori, che vennero comprati dal sindaco e rivenduti al villaggio vicino, ma non fu sufficiente. Non venne più ceduta una parte dei profitti al municipio, che stava privandoli del loro lavoro, delle loro terre: in quelle condizioni era impossibile assicurare una crescita sana delle famiglie. Vennero imposti sacrifici anche ai figli stessi dei contadini: tutti dovevano concorrere alla causa, così un giorno vennero venduti anche i loro giocattoli.
La situazione era diventata drammatica: il giorno dopo quest'ultima scelta venne stabilito di organizzare una manifestazione contro il sindaco, e ogni contadino andò a dormire speranzoso in quella che sarebbe stata la loro lotta più importante.

Ma il giorno dopo gli eventi presero una strana piega: i figli dei contadini non appena si accorsero della perdita dei loro giocattoli si indignarono. non era giusto: loro che colpe avevano di quella situazione? con che coraggio i loro padri decisero di vendere una cosa così importante? venne ingaggiata una lotta tanto spietata quanto inaspettata: i contadini che stavano marciando contro il municipio si trovarono attaccati alle spalle dai propri figli: ne scaturì una lite violentissima, e a fine giornata la stanchezza fu l'armistizio naturale della disputa: senza più energie per combattere contro il municipio, tutti tornarono alle rispettive abitazioni.

Senza più alcuna energia il giorno successivo, cercando di dimenticare gli orrori della giornata precedente, contadini e figli si recarono ai campi, ormai ridotti a fazzoletti. Non appena furono entrati e iniziarono ad arare il poco terreno rimasto le staccionate come per magia si chiusero attorno ogni abitante del villaggio: a nulla servirono le urla, a nulla valsero i tentavi di liberarsi dalle recinzioni animate: furono attimi terribili, la morte fu l'unico sollievo dalla tortura.